«Sono un filosofo che si dedica da decenni al giornalismo scientifico. Dopo una lunga esperienza come cronista, ho incontrato la scienza e mi ha conquistato. Oggi ho più di 30 anni di esperienza come redattore, inviato internazionale, docente universitario». Autoritratto di Vito Tartamella, oltre diecimila articoli e tre libri nel curriculum, autore su Focus di reportage che spaziano dalla tecnologia all’astronomia, dall’ambiente alla geologia, dalla biologia al digitale: il tema che più incuriosisce e colpisce, tra quelli che affronta, riguarda tuttavia le parolacce: un fenomeno sociale diffusissimo, radicato in tutti gli ambienti e amplificato dai social, sul quale però in pochi si soffermano, pochi analizzano, spiegano o riflettono. Lui sì, fin da giovanissimo: ha dedicato un’inchiesta giornalistica, aperto un blog e scritto un saggio, ha tenuto conferenze all’Università di Caxias do Sul, in Brasile, e Chambéry in Francia, adesso prepara un seminario per laureandi. Apparentemente una bizzarria, di fatto un approfondimento prezioso: «Il fine -spiega al Giorno – è spiegare agli studenti cosa sono e come funzionano le parolacce. Spesso ci si limita e esprimere orrore e raccapriccio, ma pochi le guardano per quello che sono: servono a esprimere emozioni, e non solo quelle negative. C’è una storia millenaria da raccontare con risvolti non solo linguistici ma psicologici, sociologici, giuridici, storici e artistici. Senza dimenticare la sfera della biologia: il nostro cervello archivia in modo particolare le parolacce».
Ha preparato 250 slide, il materiale non manca. E oltre alla ricerca rigorosa di significati che ignoriamo, ricorrendo superficialmente, per abitudine o istinto, al turpiloquio, e a excursus storico-letterari divertenti (sapevate che nella Divina Commedia ci sono tredici parolacce? E che anche Shakespeare, Mozart, Leonardo Da Vinci e Leopardi le hanno usate?) trova spazio la comparazione linguistica, necessaria per non incorrere in gaffe o svuotare il significato offensivo cui pensiamo saccheggiando certi vocaboli: in francese per indicare “una testa di…” si usa il sesso femminile, in Italia definire “figa” una persona significa attribuirle una connotazione positiva. Senza dimenticare l’evoluzione linguistica – marrano, un tempo gravissimo, è in disuso, bimbo minkia è una new entry – e la contaminazione della politica dove lo sdoganamento attribuito a Bossi si è propagato a governi e opposizioni: in principio fu un modo, chissà se spontaneo o studiato, per abbattere le barriere e permettere al popolo di riconoscersi nei suoi rappresentanti. Infinite le curiosità annesse, per esempio l’estraneità di un’unica lingua e un unico popolo all’insulto verbale: in Giappone non esistono termini atti a offendere, si alzano solo i toni e si dà del tu, tuttavia qualche parolaccia è stata importata, effetto anche questo della globalizzazione.
Il libro si chiama “Parolacce”. Il titolo è didascalico, quasi banale, ma il sottotitolo (“Perché le diciamo, che cosa significano, quali effetti hanno”) svela l’approccio scientifico all’argomento e il richiamo in copertina (“Dai babilonesi a Benigni”) e i numeri annessi alla sua storia (4.000 anni) e geografia (23 lingue) ne illustrano la diffusione. A ben pensarci, sono state proprio le parolacce a sancire l’inizio della civiltà, prendendo il posto delle pietre che gli uomini si lanciavano prima. E chi pensa sia argomento tabù, ricordi che se ne trovano perfino nella Bibbia.
Lo studioso delle parolacce
Vito Tartamella, filosofo e giornalista, ha dedicato inchieste, libri e seminari al turpiloquio: fenomeno sociale, storico e scientifico che risale ai Babilonesi e si insinua nelle opere più grandi, dalla Bibbia alla Divina Commedia