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«Ronconi ha fatto di me un’attrice consapevole»

«Come regista di “Cuore” con Angela Di Maso ho creato una storia, per superare un dolore personale, che vale per tutti»

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Come un’antidiva di razza mi ringrazia perché le offro l’op­portunità di fa­re il punto sulla situazione: sua personale e sul teatro in generale. Perché «verbalizzare aiuta». Alvia Reale non me ne vorrà se la ascrivo a un pezzo di storia del nostro teatro di prosa. Il migliore, quello dedito alla parola ben detta, non tanto perché ben pronunciata ma perché profondamente compresa e penetrata. Un teatro che affonda nel testo, lo viviseziona, lo scardina e lo rimonta per restituire a chi ascolta la vita che scorre di sotto, i pensieri inespressi, le intenzioni, le pulsioni che ogni personaggio racchiude, a volte senza saperlo. Non è un approccio astratto e intellettualistico: è proprio il teatro che funziona così. O, almeno, dovrebbe. Oltre il talento, l’istinto, la vocazione, ci sono ore e ore di “tavolino”. E lei lo sa bene. Dieci spettacoli con Luca Ron­coni, indiscusso mae­stro del teatro di parola, non sono uno scherzo.
E allora partiamo da qui, da quello spettacolo che con Ronconi segna il suo esordio, “Strano interludio” di Eugene O’Neill, sette ore in scena.
«Sette ore e a fine spettacolo il pubblico in piedi che urlava di felicità. È che dopo un po’ si va in una specie di trip e non ti accorgi più del tempo che passa. Ricordo la pasta cucinata all’alba nel residence che condividevo con Ga­latea Ranzi e Massimo Po­polizio».

Cosa ha rappresentato per lei l’incontro con Ronconi?

«Ha fatto di me un’attrice consapevole. Sono arrivata come un animaletto che era solo istinto e ho imparato cosa significa la comprensione del testo. Ti spalancava un mondo e ti faceva capire che dietro una parola non c’è una cosa sola ma un mondo di possibilità infinite».

Una decina di spettacoli hanno dimostrato che la sua fiducia se l’è ben conquistata.

«Gli piaceva il mio essere popolana, le mie origini proletarie. Non vengo da una famiglia di artisti né di gente che frequentava il teatro. Però io già prima dell’Ac­cademia facevo piccole cose, non ricordo nemmeno come è nata la vocazione, probabilmente c’è sempre stata».

Infatti è stata ammessa alla Silvio D’Amico.

«Allora in Accademia c’erano persone di diversa estrazione, l’ascensore sociale era più semplice. Oggi cambiare socialmente la propria condizione è molto più difficile».

Oggi c’è una liquidità indefinita non solo di condizione sociale. Che ricordo ha di quel periodo?
«Ero una ragazzina arrogante innamorata del teatro. Tra i nostri maestri c’era Aldo Trionfo che ci ha sempre detto che il teatro è semplice, è fantasia e si fa con quello che c’è. È il guscio di noce di Peter Brook che può diventare una nave. Parlare della mia storia personale significa parlare delle persone che ho incontrato e che hanno contribuito, nel bene e nel male, a fare quello che sono».

E allora parliamo di Um­berto Orsini, con cui ha lavorato più volte.
«La prima nel ’90 ne “L’uomo difficile” di Hugo von Hof­mannsthal, diretti da Ronconi. Ma lui era Orsini e io lo guardavo con reverenza. Poi l’ho reincontrato più tardi grazie a Roberto Valerio per “Il gioco delle parti” di Pirandello e l’ho conosciuto dal punto di vista umano».

E quindi?
«Quindi mi sono innamorata di lui. Per l’etica, il senso del dovere, del sacrificio, per l’amore per la professione, la dedizione, la serietà, la sincerità. Da Umberto ho imparato la disciplina e come tutti i grandi è curioso dei giovani».

Visto che la sua storia è scandita dagli incontri, mi racconti di Miti Pretese, un inossidabile sodalizio tra donne: lei, Ma­nuela Mandracchia, Sandra Tof­folatti e Maria Angeles Torres.
«Si può dire che la mia storia sia divisa in prima e dopo Miti Pretese. Quattro attrici ritrovatesi sulla voglia di raccontarsi al di là degli stereotipi con cui vengono raccontate le donne soprattutto in Italia, sostanzialmente divise tra la mamma e la puttana. Noi volevamo spostare lo sguardo e parlare di lavoro, di passione politica, di scienza. E il nostro segno era la regia collettiva».

E avete faticato?

«Le dico solo che un produttore ci ha detto “ma perché non vi trovate un regista”».

Però è pur vero che un regista vi ha ampiamente sostenute.
«Piero Maccarinelli, un fratello. Ci ha subito aiutato, un regista generoso, che ama il talento e che veniva a vederci durante le prove in una fabbrichetta del ghetto».

E che l’ha appena diretta in “Farà giorno”, con Antonello Fassari e Alberto Onofrietti, una ripresa impegnativa perché arrivata dopo la morte di Gianrico Tedeschi e Marianella Laszlo, interpreti della precedente edizione.

«Infatti gli sono molto grata e con Antonello ho toccato con mano che in teatro la sintesi e la leggerezza sono importanti».

Leggerezza che contraddistingue il suo personaggio ne “Il giuocatore” di Goldoni con la regia di Roberto Valerio, attualmente in scena: l’attempata Gandolfa sorella di Pantalone in preda a tenerissime fregole amorose per il giovane Flo­rindo.
«Un ruolo che ha stupito me stessa perché non pratico spesso il genere brillante e questa è stata una creazione felice. E con Roberto c’è affinità e fiducia reciproca. È un regista non giudicante, che lascia l’attore libero di esprimersi al meglio».

Chiudiamo con la sua nuova avventura da regista incominciata con “Cuore”, un testo autobiografico commissionato da lei e Daniela Giovanetti ad Angela Di Maso e andato in scena dopo il lockdown. Com’è nata l’idea?
«Daniela e io ci siamo ritrovate davanti a un teatro chiuso. Dopo la pandemia abbiamo avuto qualche proposta ma non riuscivamo a ripartire. Io avevo anche perso mia madre e sentivo forte il bisogno di celebrare quella morte e la morte del mondo a cui avevamo assistito. Credo, con Karen Blixen, che ogni dolore possa essere superato solo se su quello stesso dolore si racconta una storia, così con Angela abbiamo creato una storia: non un’auto-fiction ma una storia che potesse diventare universale».

Ed è andata così bene che poi Fabio Mascagni le ha chiesto di dirigerlo in “Angelo della gravità”, il monologo di Massimo Sgorbani, autore scomparso da poco, ispirato a un fatto realmente accaduto negli Stati Uniti: un detenuto nel braccio della morte che aspetta il giorno dell’esecuzione, ma è troppo grasso perché la corda del boia possa reggerne il peso.
«Anche questa è stata un’esperienza felice. È che gli attori non sono abituati a essere amati e quando invece li ami, volano».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco