Una serata speciale sul palco di Fondazione Ferrero, ispirata dal brand “Italians” che Guido Harari ha utilizzato per la sua magnifica mostra fotografica. Lo stesso che negli anni ha accompagnato la carriera giornalistica di Beppe Severgnini. Che abbiamo incontrato e intervistato per IDEA.
Tutto è cominciato con il suo esordio in tv, giusto?
«Il programma si chiamava “Italians”, è del 1997 e l’idea di intervistare trenta grandi italiani era venuta a Renzo Arbore, che all’epoca non conoscevo. L’ha proposta alla Rai, l’abbiamo realizzata, e Harari che invece conoscevo, l’ha saputo e mi ha detto: posso allestire un piccolo set fotografico a lato di quello televisivo? Io sapevo che era un grande fotografo e che avrebbe anche tenuto un comportamento adeguato, perché al di là della qualità artistica si deve essere opportuni in quei momenti delicati. Lui è stato bravissimo. Alla fine delle interviste, il personaggio si sentiva sollevato, lui si avvicinava e scattava qualche bella immagine. Ne facevamo sempre anche insieme, io e il mio intervistato. Ho ancora una trentina di foto meravigliose. È stato l’inizio di un progetto che lui ha continuato. Il mio “Italians” è poi diventato un blog che c’è ancora sul Corriere, così come la mia rubrica domenicale, ed è diventato un libro, c’è pure il podcast “Radio Italians”. Lui ha fotografato gli italiani “simbolici”, espressione di un’arte, di un carattere, di un’invenzione, di un’abilità o di una forza».
Le fotografie di Harari tirano fuori una caratteristica del personaggio, l’intervista giornalistica è un’indagine complessiva?
«Non è poi così diversa. Ma come ha detto Guido, io avevo 40 minuti per far venire fuori una personalità, per lui c’era poco tempo. Un compito più difficile. Io sollecitavo le parole, sia che avessi Baggio, Montanelli o Monica Bellucci. Poi è chiaro che la giovane Monica aveva la sua immagine come Montanelli o Biagi, però la parola era la chiave di tutto. Le foto parlano solo se un grande fotografo regala la parola a quei volti muti».
Lei ha detto che, nella visione internazionale, gli italiani hanno spesso talento ma non sono affidabili. È ancora così?
«Vale più che mai. Non è per adulazione se dico che la Ferrero è un esempio: hanno avuto intuizioni geniali, ma c’era dietro anche una grande affidabilità, c’era la qualità del prodotto. E questo vale per tutti. Un grande calciatore non è tale perché gioca una partita meravigliosa e basta. L’unico che ha unito genio e sregolatezza è stato Maradona che aveva una tale overdose di talento da poter compensare tutto. Ma gli “Italians” erano persone preparate a fare bene le cose in cui erano bravi. Ogni giornalista, industriale, musicista o attore dovrebbe ricordare questo. C’è tanto talento in Italia, sprecato dall’approssimazione».
È anche per questo che i “cervelli” italiani fuggono all’estero?
«Ma all’estero non puoi illuderti, non puoi pensare “io ci riesco perché ho talento e non mi serve altro”. Nei paesi del nord Europa come in Usa, Giappone, ma anche in Cina, non ti concedono neanche l’illusione. La prima volta che ti dimostri inaffidabile, se anche sei un genio, ti mandano via. In Italia siamo troppo generosi con personaggi a cui viene concesso tutto, ho in mente nomi di personaggi a cui concediamo di essere “simpaticamente cialtroni” e non va bene».
Lei conosce e ama la cultura anglosassone: che momento è per l’America?
«Complicato. È una nazione spaccata in due culturalmente, politicamente, moralmente, religiosamente. Durante la guerra civile si spaccò su razza, diritti civili e schiavitù. Mi preoccupa che oggi uno dei generali della Confederazione sia Trump. Sarebbe già grave se facesse solo metà delle cose che dice, trasformerebbe gli Usa in un’autocrazia, una grande Ungheria. Se guardi lui e Orban da vicino, sono simili. Ma l’Ungheria è contornata da Paesi democratici ed è gestibile, mentre l’America sarebbe fuori controllo. E la cosa grave è che Trump potrebbe rinfacciarci di avercelo già detto, di averci avvertiti che non avrebbe accettato la sconfitta. Questo mi mette ansia».
Nel mondo ci sono nuove guerre e non era mai accaduto che gli Usa restassero a guardare. Che cosa succede?
«Io alle guerre fatte per portare democrazia non ci ho mai creduto. È come se i cargo portassero container di bicchieri di cristallo: arriverebbero rotti. La democrazia è così. Quando ci fu l’invasione dell’Iraq nel 2003, mi trovavo a Washington mentre negli ambienti repubblicani si gridava all’invasione imminente. Scrissi un fondo sul Corriere per dire che trovavo questa idea pessima e che lo sostenevo da amico dell’America. Ho avuto ragione. Quell’ america non c’è più e a volte viene da chiedersi se le timidezze di Obama con la Siria di Hassad siano state buone idee. Io sogno la pace ma so perfettamente che esistono le forze armate e il ministero si chiama “della difesa”, non “dell’attacco”: è scritto nella Costituzione. Credo che disarmarci e affidarci al primo bullo di turno sia troppo rischioso. Detto ciò dovremo arrangiarci da soli sia che sarà eletto Trump, ma anche con Biden. Da là l’Europa è vista come un mobile d’antiquariato che sta bene in salotto ma non è esattamente la tua prima preoccupazione».
Rientriamo a Milano: in Italia ha sempre più un ruolo guida?
«Oggi più che mai, è evidente. È il posto dove qualunque ragazzo, da qualunque regione, se ha talento e tenacia, fa carriera. È una grande attrazione e un banco di prova. Ho scritto che è bello girare nei corridoi del Corriere e sentire un concerto di dialetti. Le mie allieve più brave sono piemontesi, arrivano da Pinerolo, Savigliano e Collegno. Io stesso non sono milanese, sono di Crema. Però Milano deve stare molto attenta, è adrenalinica ma in giro c’è l’aggressività di chi pensa di avere il diritto di divertirsi e trovare il successo. Non appartiene agli studenti ma ad alcune fasce professionali con la tendenza al superomismo (vale anche per alcune donne). E se i ragazzi non riescono a pagarsi l’affitto, è un problema da affrontare con massima serietà. Le otto università ci stanno provando ma non basta. Immagino che ad Alba chi lavora per la Ferrero riesca a trovare una buona casa nel limite dello stipendio. Se a Milano duemila euro in busta paga non sono sufficienti, è una questione della quale questa classe dirigente, che spesso si distrae, non appare del tutto consapevole».
CHI È
Giornalista, saggista, opinionista e conduttore televisivo italiano. È editorialista del Corriere della Sera, dov’è arrivato nel 1995. Per il quotidiano ha creato il blog/forum “Italians”, ha diretto il settimanale 7-Sette e ha ricoperto la carica di vicedirettore del giornale
COSA HA FATTO
Ha cominciato l’attività per Il Giornale di Indro Montanelli che seguirà poi nell’avventura a La Voce come corrispondente da Washington prima di approdare al Corriere. Negli stessi anni avvia solide collaborazioni con diverse testate in lingua inglese come The Economist
COSA FA
Appare spesso come opinionista nelle trasmissioni televisive in prima serata, ad esempio “Otto e mezzo” condotta da Lilli Gruber su La 7. In radio interviene nel suo appuntamento
mattutino “Severgnini alle 8” assieme a Luigi Santarelli su Rtl 102.5. Docente universitario, è protagonista di incontri divulgativi con gli studenti di ogni ordine e grado