Stefano Garzelli, vincitore del Giro nel 2000 e attuale commentatore della Rai, fa le sue previsioni per la corsa di quest’anno e allarga il suo sguardo al futuro del ciclismo italiano.
Se dico Giro d’Italia che cassetti della memoria si aprono?
«Io vado in bici fin da piccolo e per me partecipare e vincerlo è stato un sogno. Ricordo, invece, negli anni ’90 una cronometro a Varese di Gianni Bugno sul Sacro Monte che andai a vedere con mio padre. Associo il Giro d’Italia all’entusiasmo, non è solo un evento sportivo, ma una festa nazionale che riesce a unire le persone, anche i non appassionati rimangono coinvolti e si colorano di rosa».
Che corsa si aspetta quest’anno?
«Tadej Pogacar è il principale favorito. Il percorso è adattissimo alle sue caratteristiche ed è in grande forma, per quello che ha già dimostrato quest’anno e per quello che ha fatto nel recente passato. C’è un buon campo partenti, ma da Thomas agli altri, tutti dovranno inventarsi qualcosa perché andare nello scontro diretto in salita con Pogacar sarà difficile, soprattutto considerando la condizione e la continuità che ha dimostrato».
Ha un bel ricordo con il Piemonte?
«Sono legato a quel territorio perché è stato molto importante per la mia formazione, prima di diventare professionista, ho corso due anni a partire dal 1993 per la Brunero Bongioanni di Ciriè».
Ora fa anche il commentatore sportivo, le manca qualcosa del ciclismo professionistico?
«Direi che mi manca tutto, perché alla fine quando sei corridore non ti accorgi delle fortune che hai, anche solo quella di essere protagonista di un grande evento come il Giro d’Italia. Ne hai consapevolezza solo quando smetti. Poi, io sono rimasto nell’ambiente, anche se con un ruolo differente. Ma ho parecchia nostalgia, a cominciare dall’adrenalina, la fatica stessa, ma sono contento di aver fatto parte di questo mondo».
Chi le ha fatto conoscere la bicicletta?
«Il merito è stato di mio fratello con alcuni amici: io sono nato a Besana, un piccolo comune lombardo dove era presente la Polisportiva Besanese, che ha, ormai più di 50 anni. E quindi devo molto a questa squadra in cui ho cominciato a pedalare da ragazzino».
Cosa le ha insegnato il ciclismo?
«Al ciclismo devo tutto come uomo e come professionista. Ho realizzato un sogno che avevo da bambino e sono stato compagno di Marco Pantani. Ho imparato dei valori che mi sono serviti per la vita: l’importanza della costanza, della fatica, il non demordere mai e il non compromettersi. Lo sport insegna anche a superare gli ostacoli e a non arrendersi, oltre al sacrificio e al rispetto degli avversari».
Cosa ha rappresentato Pantani per lei?
«Era il mio idolo e mi sono ritrovato a far colazione con lui, a correre con lui. Siamo stati compagni per quattro anni e quello che ho imparato grazie alla nostra relazione sportiva, me lo sono portato dentro per tutta la mia carriera. Non ho mai conosciuto una persona così carismatica, con uno sguardo sapeva dire tutto. Era magnetico, parlava poco, ma era in grado di lasciare il segno. Del resto, dopo 20 anni, siamo ancora qui a parlarne, come sportivo, come icona, come simbolo».
Come vede il futuro del ciclismo?
«Il momento è molto complicato, non si dà il tempo ai giovani di crescere, comandano le squadre WorldTour che stanno facendo anche delle squadre juniores, una prospettiva che adire la verità non mi convince. In Italia non stiamo bene, ci sono solo tre squadre e nessuna WorldTour. Una volta si poteva parlare di ciclismo europeo con Italia, Francia, Spagna, Belgio, Olanda e poco più, ora si tratta di una disciplina globale. Speriamo che il ciclismo italiano possa crescere e riesca a trovare corridori soprattutto per quanto riguarda le corse a tappe».
C’è una ricetta per il movimento italiano?
«Manca una squadra WorldTour italiana. Se un atleta italiano corre in una squadra tedesca o francese non faranno mai totalmente i suoi interessi. Abbiamo buoni talenti, ma dobbiamo permettere loro di fare il salto di qualità a livello di corsa e mentalità, ricordandoci che un corridore italiano in una squadra all’estero non sarà mai appoggiato e valorizzato come se fosse in Italia».
Se non fosse stato ciclista, cosa avrebbe fatto?
«Non ho mai pensato a un piano B, ho avuto la fortuna di coronare un mio sogno, con una grande soddisfazione. Ci sono state tante vittorie, molte sconfitte e numerosi secondi posti, ma non posso assolutamente lamentarmi e non ho rimpianti sportivi. Mi sono divertito nel corso della mia carriera e spero di aver fatto divertire gli appassionati».
Articolo a cura di Daniele Vaira