Il giornalista e memoria storica del ciclismo Marino Bartoletti ci ha raccontato, in vista della tappa fossanese, l’amore per lo sport e i suoi eroi.
Cosa rappresenta storicamente il Giro d’Italia?
«Lo associo alla crescita dell’Italia e alla sua redenzione. Nel 1946 nemmeno la Francia, Paese vincitore della guerra ebbe la forza, la fantasia o l’incoscienza di organizzare il Tour; invece, in Italia ci furono dei sognatori che diedero vita al Giro d’Italia. E fu straordinariamente importante perché riportò la speranza: un centinaio di disperati, insieme ad altrettante biciclette e a delle auto che erano dei residuati bellici, riuscirono a scendere fino a Napoli, perché oltre non si poteva andare, e risalirono. Fecero capire che l’Italia esisteva ancora».
E anche l’accoglienza fu incredibile.
«Tantissime persone assiepate sulle strade si accorsero che pedalando, nel senso metaforico e letterale della parola, ci si poteva rialzare, rimboccarsi le maniche e ripartire tutti insieme».
E, invece, il suo primo ricordo del Giro?
«È quello di un bambino che veniva portato da suo padre sul ciglio della strada a vedere passare il Giro d’Italia. Ho ricordi nitidi, malgrado fossi piccolo: uno di Bartali con la maglia tricolore, uno di Coppi, un ricordo della maglia rosa che passava. Ricordo un’emozione che fu al tempo stesso sicuramente formativa, perché la voglia di raccontare lo sport, forse, è nata veramente lì».
Il ciclismo è stato un faro nella sua carriera.
«Quando diventai direttore dello sport in Fininvest, l’editore mi chiese: “Come possiamo fare per strappare il primato dello sport alla Rai?”. E io risposi: “Comprando il Giro d’Italia”. E fu un bene perché nella tv di Stato il racconto si era appiattito e si stava trascurando un prodotto così bello. Anni dopo successe la stessa cosa quando diventai direttore dei servizi sportivi della Rai. Insieme alla Formula 1, chiesi di comprare il Giro, e ci fu un grande impegno per raccontarli con professionalità. Facemmo in tempo a festeggiare la vittoria di Pantani nel 1998».
Ma i progetti continuarono.
«Al Giro ci sono andato, ho partecipato a trasmissioni tematiche, ne ho create, come quella del mattino che si chiamava “Bar Toletti” e che nacque proprio in Piemonte: la prima puntata fu quella del Giro d’Italia 2011 che partì dalla Reggia di Venaria e celebrò i 150 anni dell’unità d’Italia».
Che rapporto ha con il Piemonte?
«Molto stretto, ho tanti ricordi legati, per esempio, alla tappa Cuneo-Pinerolo: io ero tra quelli che non ascoltava solo la radio, ma la “guardava”. Erano i tempi in cui venivano raccontate le imprese di Mario Ferretti che molte volte riguardavano proprio le montagne piemontesi».
Il Giro d’Italia può avere ancora fascino?
«Il Giro d’Italia ha le sue ritualità che sono, per fortuna, assolutamente immutabili: ancora adesso i papà portano ai bordi delle strade i loro bambini a vedere passare i corridori del Giro. Ancora adesso ci sono le maestre con le classi che sventolano le bandierine rosa al passaggio dei ciclisti. Rimane la ritualità della partenza, in cui il ciclismo offre qualcosa in più, la totale prossimità nei confronti degli atleti: rappresenta l’ultimo grande evento gratuito; possiamo andare a una corsa qualsiasi e vedere passare il nostro idolo a pochi centimetri da noi. E i corridori hanno ancora il piacere di condividere la gioia del pubblico».
Quest’anno cosa si aspetta?
«Un Giro di consolidamento e al tempo stesso di speranza per cercare di capire se c’è ancora posto per noi».
C’è qualche corridore, tra i tanti, a cui si sente particolarmente legato?
«Un anno fa se ne è andato il mio idolo Ercole Baldini, forlivese come me, che per tre anni è stato il più grande ciclista italiano. Sono legato a lui, come lo sono ai personaggi che ho incontrato e raccontato. La globalizzazione ci ha fatto un po’ passare in secondo piano, ma ricordo con piacere Nibali, per esempio, che ha saputo conservare una modestia pari alla sua classe».
Che ricordo ha di Pantani?
«Ho vissuto in intimità questa amicizia, gli ho voluto un bene da fratello maggiore e ho condiviso con lui momenti bellissimi. Tutti abbiamo il piccolo rimorso che potevamo fare qualcosa in più per lui. È lo sportivo italiano che nell’ultimo ventennio ci ha dato le emozioni più forti, ci ha fatto rivivere sensazioni che la mia generazione aveva soltanto sfiorato, ha fermato l’Italia. Adesso sarebbe il caso di lasciarlo riposare in pace».
Secondo lei il ciclismo è uno sport che può dare qualcosa ai giovani?
«Dal vivo ti trasmette delle emozioni uniche e ti trasferisce lo spirito di sacrificio; tra l’altro da qualche tempo è anche uno sport più pulito e credibile. Peccato che ci siano sempre meno campioni italiani nel panorama internazionale».
Lei è ancora innamoratissimo di questo sport.
«Ha smosso tutte le fantasie che poteva smuovere. Le sensazioni che ti dà il ciclismo non te le regala nessun altro sport. Chi va in macchina si arrabbia, chi va in bici sorride. Io a 75 anni, nonostante qualche acciacco, vado ancora in bicicletta. Ho fatto anche uno spettacolo sulla storia del ciclismo dal titolo “ZazzarazzaZ”, in cui racconto la storia d’Italia attraverso la bicicletta e i suoi eroi».
Articolo a cura di Daniele Vaira