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«Essere attore è un divenire legato alla vita»

L’arte di Orietta Notari che ha appena debuttato come “Medea” per lo Stabile di Torino: «Sono molto attenta alle persone, le osservo anche sull’autobus. Un onore il ruolo di Fernanda Pivano nel film su De André»

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Orietta Notari è un’at­trice operosa, di grande ta­lento, amata da registi di altrettanto talento, un’attrice ben inserita nei circuiti ufficiali, unanimemente stimata dagli ad­detti ai lavori, ampiamente riconosciuta e più volte premiata. Una di quelle attrici che mette tutti d’accordo, senza muovere un dito. Perché se non fa nulla per na­scondersi, fa ancora meno per mostrarsi, non sgomita, non scalpita, non rincorre i primi piani, non insegue ruoli da prima attrice perché «mi piace vedere cosa succede, cosa mi arriva da fuori». Bene, da fuori le è arrivata la proposta di interpretare “Me­dea”, la figura tragica per antonomasia, colei che ha ucciso i suoi figli per vendicarsi del tradimento del marito Giasone: un atto di fiducia, probabilmente una vera e pro­pria elezione da parte di Leo­nardo Lidi, giovane regista con cui ha ormai instaurato una collaborazione fruttuosa. Lo spettacolo ha de­buttato la settimana scorsa per la stagione dello Stabile di To­rino, alle Fonderie Limone di Moncalieri, e pare sia stato molto ben accolto da pubblico e critica.

Orietta, qual è stata la prima sensazione che ha avuto quan­do Lidi le ha proposto Medea?

«Di spavento. Medea? Mi sono detta, un personaggio che vive della sua fama negativa, come avrei potuto arrivare a raccontare il più terribile degli omicidi?».

E poi?

«È stata una bellissima avventura. Lidi ha voluto esplorare la storia di amore di una donna tradita, disperata, cercando di soffermarsi su cosa veniva prima».

Nel senso che c’è stato un intervento drammaturgico re­la­ti­vo all’antefatto?
«C’è stato uno sviluppo di tipo emotivo. Il testo è quello di Euripide, a parte il monologo finale di Giasone fatto da Riccardo Baudino, il dramaturgo».

Generalmente come si prepara su un personaggio?
«Cerco di approfondirlo leggendo molto, ma soprattutto faccio un percorso per innamorarmene. Sposandone la causa, mettendomi dalla sua parte. Però quando arrivo alle prove sono in apertura totale, senza pregiudizi e spero condizionamenti».

Guarda anche i video di altri allestimenti?
«Preferisco arrivare alle prove pura, con una sorta di verginità. Poi la mediazione delle letture e dello studio è inevitabile che incida ma io mi pongo in uno stato di totale disponibilità, se il caso anche a stravolgere tutto».

Con Lidi ha ormai instaurato una collaborazione duratura: quando è nata?
«Nel 2020 con “La casa di Bernarda Alba” di Lorca dove io interpretavo la serva che però era anche una specie di sorella di Bernarda, sua rivale in amore. Il lavoro di Lidi è molto interessante perché stratifica i personaggi arricchendoli di diverse interlocuzioni. Inoltre mi conquista la sua generosità nel voler portare al pubblico un teatro che abbia anche una funzione politica. Medea per esempio racconta la condizione di una donna vessata, non molto diversa da certe situazioni di oggi. Il nostro è stato un viaggio nel profondo, un attraversamento nelle paure della natura umana».

E Medea è un po’ il ruolo che tutte le attrici vorrebbero in­terpretare. Ma come ha reagito quando Lidi le propose il Sò­rin de “Il gabbiano” di Ce­chov, un personaggio maschile?

«Mi sono stupita ma poi mi sono subito fidata e dopo le prime riserve mi sono perdutamente innamorata di Sorin. Ho cercato la sua anima scortandolo da fuori, non cercando una mimesi, un camuffamento, ma il suo lato delicato, l’amore di uno zio che ama il nipote di un amore quasi materno, più della madre».

A parte le letture e la preparazione teorica, segue un metodo per avvicinarsi ai personaggi?

«Mah! Nel corso degli anni ho approfondito tanti metodi e frequentato laboratori e seminari con tanti registi e maestri ma poi nessuno ha la verità in tasca. Il lavoro dell’attore è in divenire, in relazione alla vi­ta. Io sono molto attenta alle persone, le osservo attentamente, anche quando sono sull’autobus».

A proposito di maestri, ha lavorato con Luca Ronconi a fianco di Mariangela Melato. Cosa conserva di quell’esperienza?
«La consapevolezza di avere avuto un gran privilegio. Quello che Ronconi diceva sui personaggi era commuovente e geniale. Io facevo Kristine in “Nora alla prova”, uno spettacolo da “Casa di bambola” di Ibsen, ma soltanto dando il là al personaggio che poi Mariangela avrebbe interpretato. Ronconi ci illuminò sul fatto che Kristine e Krostad si amano nel profondo perché si incontrano dopo un percorso in cui sono diventati loro stessi e non hanno più bisogno di mentire».

C’è un altro regista attualmente sulla cresta dell’onda con il qua­le ha lavorato più volte: Filippo Dini con cui ha fatto “Ivanov” di Cechov e recentemente “Agosto a Osage County” del drammaturgo americano Tracy Letts.
«Dini è un regista che riesce a spronare gli attori pur essendo sempre molto rispettoso. Per lui la relazione in scena è sempre vera, concreta, il suo scopo è valorizzare quello che tu attore con la tua precisa personalità puoi portare al personaggio».

Parliamo sempre di anime, vero?

«Sì, perché per fortuna la tendenza è quella di essere sempre meno legati alla fisicità. Basti pensare che Peter Brook ha fatto interpretare Amleto a un attore nero».

Nel suo percorso cominciato allo Stabile di Genova con Marco Sciaccaluga ha in­con­trato figure di grande rilievo anche internazionale. Uno tra tutti, Benno Besson, il braccio destro di Brecht.
«La prima volta che ho visto e capito che da un ostacolo può nascere un’opportunità. Im­pa­r­avi guardandolo».

Chiudiamo con un tributo alla sua Genova dove vive tuttora: ha interpretato Fer­nanda Pivano in “Principe libero”, il film su Fabrizio De André con Luca Marinelli diretto da Luca Facchini.
«Un grande onore. Io sono cresciuta con le canzoni di De André, mi hanno formato e spostato il mio punto di vista, il mio modo di pensare. E a Fernanda Pivano dobbiamo tantissimo, è lei che ci ha fatto conoscere la beat generation. Io ho cercato di captare attraverso letture e filmati quella magia che c’era tra loro».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco