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«Fotografo il teatro e svelo le intenzioni entrando nel flusso»

Tommaso Le Pera cattura in scena l’attimo liquido che diventa immagine e innesca ricordi

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Si muove leggiadro tra le quinte e la platea in cerca della giu­sta an­golazione del mo­mento: del momento, perché soltanto un attimo do­po la scena non sarà più la stessa e anche l’angolazione do­vrà ne­cessariamente cambiare. E così la sua posizione. Sulle spalle ha una macchina fotografica che certamente è avveniristica ma non sembra leggera. Eppure Tommaso Le Pera la manovra con l’agilità di un giocoliere. Non è un fo­tografo: Tommaso è il fotografo di scena. Colui che si è inventato, e ha inventato per le generazioni a venire, la fotografia dinamica. E se oggi ci basta uno sguardo veloce alla fotografia di uno spettacolo per coglierne lo spirito o ricordarne il processo, è grazie a una svolta come questa. Non più primi piani statici, po­sati, allestiti come una sor­ta di natura morta, né artifici che simulano una spontaneità surrettizia, ma sce­ne in at­to, immortalate nel loro divenire reale, in un qui e ora che non si ripete ma che si può ri­cordare. L’attimo liquido che solidificandosi in un’immagine innesca il ricordo di una pas­sata liquidità. E fa venire voglia di immergersi dentro. Lo incontro al Teatro La Co­munità di Roma, durante una filata de “Femini­num Masku­linum”, il nuovo spettacolo di Giancarlo Sepe e Tommaso sta facendo un servizio dedicato. In scena tredici attori in gran spolvero di costumi trucco e parrucco. Sce­ne che fluttuano senza interruzione, in un gioco di incastri e di spostamenti a vista: pochi og­getti di arredo perlopiù mossi da­gli attori stessi, mai fermi nella medesima posizione per più di pochi secondi. Ma fermare l’attimo e riempirlo di significato è la sua mission. Da sempre.

Come si fa?

«Si tratta di entrare nel flusso, di essere presenti all’interno di un processo. Quello che de­ve arrivare è l’intenzione e la cosa importante è l’inquadratura che è valida solo se chi guarda si concentra su quello che il fotografo voleva evidenziare».

D’accordo, ma come si fa a entrare nel flusso?
«Io quasi sempre assisto alle prove, non arrivo mai senza avere letto il copione perché conoscere l’opera è fondamentale. Così com’è importante il confronto col regista, con gli attori e i direttori di scena che ti permette di en­trare nella giusta atmosfera».

Facciamo un passo indietro: com’è nata la passione per il teatro?

«Inspiegabile, anche se vengo da una famiglia di fotografi. Vivevamo in un piccolo paese della Calabria e a tredici anni già lavoravo nello studio di mio padre che però si occupava prevalentemente di matrimoni e feste comandate. Però era anche operatore di ripresa nel cinema del paese che trasmetteva due proiezioni quotidiane. Io mi sarei occupato della seconda».

E dal cinema al teatro il passaggio è stato automatico?
«Il teatro era da sempre la mia passione, forte e inspiegabile perché al paese il teatro non c’era. Però riuscivo a farmi man­dare i testi dei classici da una casa editrice di Milano, Gol­doni, Shakespeare. Poi a vent’anni, fine anni sessanta, mi sono trasferito a Roma con la precisa intenzione di fare il fotografo di scena».

Una professione che non esisteva.

«Infatti. Le foto di scena erano statiche, il regista stabiliva quattro-cinque momenti del­lo spettacolo che venivano fissati con gli attori che guardavano in macchina senza restituire di­na­mica e pa­thos della recitazione».

Ma allora?

«Allora mi imbucavo nei vari teatri con la macchina fotografica nascosta per cercare di rubare qualche scatto ma ve­nivo regolarmente sbattuto fuori. Però quando le foto ve­nivano bene facevo in modo di farle arrivare ai diretti interessati».

E siccome piacevano, ecco il miracolo.

«Ho incominciato nelle cantine, spazi di avanguardia dove la novità non faceva paura. Ro­ma era in continuo fermento e come giravi la testa c’era un evento. Il Folk Studio è stato per tanti artisti una fucina e un trampolino di lancio. Lì una sera è arrivato Bob Dylan , non lo conosceva nessuno, c’erano quindici persone in sala».

Incredibile, lo ha immortalato?

«No, e chi se lo aspettava?».

Che ricordo ha degli artisti che ha fotografato nel tempo?
«Ho avuto con tutti ottimi rapporti, con alcuni di grande amicizia, oltre il lavoro. Ma­riangela Melato, Valeria Mori­coni: quando andavo a Jesi ero sempre ospite nella sua casa vicino al teatro, piena di libri e album di fo­to ovunque. E Vittorio Gas­sman, Giorgio Al­bertazzi, Gi­gi Proietti. Ma li ho fotografati tutti, Eduardo, Gior­gio De Lul­­lo, Salvo Randone, Ro­mo­lo Valli, Paolo Stoppa, Giu­lio Bosetti, Giancarlo Sbragia».

Sente la responsabilità della memoria?

«Certo. Lo spettacolo è frutto di lavoro e fatica di tante persone ma se va bene sta in sce­na due anni, le scene vanno al macero, i costumi in sartoria e quello che resta è la locandina, qualche critica e le foto di scena. Inoltre ci sono grandi personaggi del teatro che trop­po facilmente verrebbero dimenticati».

Ha qualche rimpianto?
«Il rammarico di non avere mai fotografato gli spettacoli di Strehler al Piccolo Teatro, era­no gli unici spettacoli in­terdetti perché il Piccolo ave­va il fotografo fisso interno al teatro».

In generale com’è il suo rapporto con i colleghi?
«C’è sempre stato tra noi un tacito accordo: se per esempio volevo andare a fotografare uno spettacolo affidato a Mar­cello Norberth (il fotografo eletto di Luca Ronconi, recentemente scomparso nda), bastava che gli chiedessi il permesso. E viceversa».

Una bella complicità.
«Soprattutto la consapevolezza che questo è un mestiere faticoso e che non rende. Se mi fossi dedicato ai matrimoni oggi sarei miliardario».

I suoi due figli, Pino e Achille, hanno seguito le sue orme. Che suggerimento dà ai giovani che vogliono avvicinarsi al mestiere?
«A volte li porto con me ma dopo due spettacoli spariscono: per la fatica e l’esiguità dei compensi».

Come ha vissuto il passaggio al digitale?
«All’inizio è stato traumatico anche perché le prime apparecchiature non garantivano buoni risultati rispetto all’analogico. Ora però non tornerei indietro. Per il teatro il digitale è una mano santa perché ti solleva da pesi e ingombri. Ma l’evoluzione è talmente rapida che diventa tutto obsoleto nel giro di due anni e un professionista si trova a non poter fare a meno delle innovazioni. Prima si cambiava dispositivo solo quando si rompeva».

Si è mai fatto un selfie?

«Per carità. Trovo ridicola questa mania di fotografare tutto e tutti. Oggi non si stampano più nemmeno le foto dei compleanni e con il digitale finisce che non si guardano nemmeno più».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco