«Lavoratori scontenti non per il lavoro, per le sue regole»

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Irene Soave ha messo il dito nella piaga. Ha pre­so lo Statuto dei La­voratori datato 1970 e ne ha fatto un libro che ha intitolato “Lo Statuto delle Lavoratrici”, rimarcando un primo tema. Ma la sua analisi non è circoscritta alla condizione minoritaria delle don­ne, affronta la presunta disaffezione verso il lavoro oltre i luoghi comuni. La giornalista del Corriere della Sera – nata a Savigliano e figlia di Sergio Soave presidente della Fon­dazione Polo del ’900 – ne ha parlato a IDEA.

Il lavoro è diventato un problema per chi non ce l’ha ma anche per chi ce l’ha?
«Un problema dei lavoratori, non certo di chi il lavoro lo governa e lo offre. Nel libro ho intervistato tante tipologie di lavoratrici: la barista, il medico, l’avvocata, la cameriera. Tutte, in ogni settore, hanno segnalato lo stesso punto, legato alla richiesta di produttività eccessiva. Sem­pre di più. Ma le regole sono imposte da chi quel lavoro non lo fa e non può capire i carichi e l’organizzazione che comporta. Vale un po’ in tutti i settori. Ho parlato recentemente con un’immunologa che mi ha raccontato cosa è accaduto con il Covid, cioè che lei ha dovuto seguire 500 pazienti facendo anche da segretaria. Tutto questo per ri­spar­miare e ottimizzare, for­se, non certo per lavorare me­glio».

Bisognerebbe rilanciare l’etica come principio ispiratore del sistema economico?
«Ma non basterebbe. Serve la dialettica politica che per sua natura è conflittuale. Serve fare uno sciopero, manifestare, organizzarsi in sindacati finché non si arriva a cambiare una legge. Lo Statuto dei Lavoratori è del 1970 ma fu promulgato dopo 18 anni di contrattazione e al culmine di una stagione intensa non a caso definita “stagione dell’autunno caldo”. Alla fine si arrivò a quel risultato».

Oggi il malessere è trasversale.
«Il lavoro, soprattutto dopo la pandemia, è diventato il sentimento più diffuso principalmente per quanto riguarda la mia generazione. Tra le don­ne, ma non solo. Si è creata una crescente disaffezione non nei confronti del lavoro in astratto, ma di certe sue regole. I media hanno cominciato a occuparsene, ma la narrazione è stata spesso un po’ frivola, ha raccontato solo la crisi della manodopera, come se nessuno avesse più voglia di lavorare. Allora ho pensato che si dovesse affrontare l’argomento con un ap­proccio più serio, per approfondire il modo in cui lavoriamo e le ragioni della disaffezione».

Nel libro ha raccolto dati significativi.
«Per esempio, ogni anno Gallup fa una ricerca sul mondo del lavoro che fotografa i sentimenti dei lavoratori europei. L’ultima li ha suddivisi tre categorie: quelli contenti, i “distaccati” e i non contenti. Bene, i contenti in Italia sono appena il 5% , si tratta del punteggio più basso in Europa. Qualcosa vorrà pur dire».

Non c’è però cambiamento. Accade perché chi co­manda appartiene al­la vecchia generazione?
«La cultura non si crea da sola, qui servono leggi per regolare il lavoro straordinario, lo smartworking. L’immagine classica del lavoratore vittima alla Fantozzi è una macchietta che non descrive concretamente la realtà. I posti di lavoro oggi sono diventati posti difficili da abitare, per le donne come per gli uomini. L’identikit del lavoratore del Novecento, con la moglie a casa, non è più reale».

Chi cede alla tentazione di lasciare il posto fisso, trova i “lavoretti” favoriti dal digitale, privi di tutele e previdenza.
«Non è comunque un fenomeno collettivo, ci sono casi individuali. Qualcuno lascia e apre un account, magari, con rischi sul piano finanziario o previdenziale. Collettivamen­te pe­rò la situazione non è cambiata nella sostanza».

Che cosa accadrà, di questo passo?
«Non sono una ministra, ma è la politica ad avere la responsabilità di organizzare il mon­do del lavoro. Ricordando che non c’è solo il welfare. D’ac­cordo, vanno bene le agevolazioni e gli incentivi. Esiste però un polo sconosciuto, quello dell’organizzazione del lavoro. L’esempio arriva dai paesi scandinavi, dove il welfare è perfetto. Ma sappiamo che non basta. Servono­ gli incentivi, ma anche gli interventi normativi, perché va be­ne avere la massima copertura di asili nido, Rsa faraoniche, colf disponibili 24 ore su 24 e vantaggi dai crediti d’imposta. Ma tutto questo in cambio di cosa? Giornate da dedicare interamente al lavoro? In realtà si cerca altro, più tempo per avere cura di noi stessi».

Altri dati?
«Una donna su due non lavora, mentre tra gli uomini uno su tre. Una chiara discriminazione. Che indica come non sia sufficiente aprire nuovi asili nido».

Le aziende della Granda possono ispirare un cambiamento?
«Non conosco abbastanza il tessuto industriale del territorio, ma so che è ricco e ben governato. E so come siamo noi piemontesi. Mi viene in mente Tino Faussone, il protagonista del romanzo di Primo Levi, “La chiave a stella”: amante del lavoro “ben fatto” che affronta le difficoltà a viso aperto e con dignità».

Oltre al lavoro quale altro settore andrebbe aggiornato in Italia?
«La cultura. In occasione del Giro d’Italia, sul Corriere sto raccontando alcune città toccate dalla corsa e per esempio per quanto riguarda le iniziative culturali, a parte le rievocazioni medievali, vedo che c’è ben poco. I fondi sono stati tagliati, mancano idee. Sono rimaste le piccole associazioni, tenute insieme con lo scotch di pochi finanziamenti, a occuparsi di cultura. E allora ecco le sagre. Ma il metro di giudizio non può essere quello di quanta folla partecipa agli avvenimenti, perché altrimenti c’è un ap­piattimento. Eppure le metriche sono sempre le stesse, dalla produzione di bulloni alla cultura».

Ma oggi non è la scuola la prima a spingere sul pedale della competizione?
«Consiglio a tutti un libro che descrive molto bene questo tema: “Chi vince non sa cosa si perde” di Stefano Bar­tezzaghi».

Passerà in Granda per presentare il suo libro?
«Sono già stata a Savigliano e Saluzzo, poi a Torino al Sa­lone del Libro (oggi, giovedì, ndr) con Chiara Gribaudo, anche lei delle nostre parti. Tornerò a giugno nei giorni 1 e 5, per il Festival dell’Eco­nomia e per Immaginari Fe­stival».

CHI È

È nata a Savigliano nel 1984, ma vive e lavora a Milano. Per un periodo ha vissuto anche in Germania. Al Corriere della Sera si occupa di esteri, attualità e cultura. Colleziona libri di
galateo e riviste femminili, a cui ha dedicato,
nel 2005, anche una tesi di laurea

COSA HA FATTO

Ha scritto il primo libro nel 2019: “Galateo per ragazze da marito” (Bompiani) e ha curato la raccolta di articoli “Camilla, la Cederna e le altre” (Bompiani, 2021) prima di realizzare “Maria Callas” (Nottetempo, 2023)

COSA FA

Il suo ultimo libro è “Lo statuto delle lavoratrici” (Bompiani, 2024), definito «un’indagine sentimentale sullo stato del lavoro delle donne in Italia»: da noi esiste ancora un problema legato all’occupazione, perché per mantenere una famiglia c’è bisogno di due stipendi e di due lavori. Ma di quali lavori si tratta? E per le donne quanto è difficile conciliare tutto con la famiglia?