«Con questo pezzo di legno ci viviamo in tre». Questo pezzo di legno è il suo violoncello, il più misterioso nella famiglia degli archi. Lei è Giovanna Famulari, una delle violoncelliste più quotate e poliedriche. Bella di una bellezza pura, senza artifici, dotata di una grazia naturale e spontanea, incarna alla perfezione il rapporto simbiotico che un musicista stabilisce con il proprio strumento. Che nel suo caso è quel pezzo di legno pieno di grazia che sa trasformare due belle gambe pronte ad accoglierlo in un amplesso sublime. La incontro in un bistrot della capitale, dove mi dice appunto che la sua vita, così come quella delle sue due figlie, fino a un po’ di anni fa, ruotava (e dipendeva) da un pezzo di legno. Con il quale Giovanna fa lunghe tournée in tutto il mondo, accanto a cantanti e musicisti italiani e stranieri (collaudatissima la sua collaborazione con Tosca, recente è la sua partecipazione ai concerti di Ornella Vanoni e Sergio Cammariere e fondamentale il suo contributo a “Il duce delinquente”, lo spettacolo dal libro di Aldo Cazzullo, dov’è in scena con l’autore e con Moni Ovadia, trasmesso in occasione del 25 aprile).
Giovanna, ho sempre pensato che quello che ha chiamato pezzo di legno abbia un posto particolare in mezzo agli altri strumenti. Sarà perché viene suonato tra due gambe divaricate?
«In effetti il violoncello è lo strumento ad arco più fisico. Io ho un rapporto affettuoso con le vibrazioni del legno, mi piace sentirlo vicino».
Le sue due figlie hanno seguito le sue orme?
«Le ho lasciate libere. Amano la musica e la ascoltano. Penso che creare buoni ascoltatori sia molto più importante che creare mediocri musicisti. La musica andrebbe studiata perché entri a far parte della cultura personale di un individuo, non necessariamente per fini esibizionistici. In Germania tutte le famiglie hanno in casa uno strumento».
Scorrendo il suo profilo facebook mi sono imbattuta nella condivisione di una breve intervista a Ennio Morricone in cui dice che la musica non è uguale per tutti, ma dipende dalla cultura di chi ascolta.
«Infatti. E per questo è importante farla studiare fin da piccoli, bisogna educare all’ascolto per creare un orecchio attento e consapevole. In questo senso la musica non è molto diversa dalle lingue che devi conoscere anche per capire e non soltanto per comunicare».
Mi dica la verità: questa cosa che non esistono gli stonati è una favoletta, vero?
«Probabilmente sì, non è che non esistano gli stonati ma l’educazione all’ascolto può aiutare a migliorare. I muscoli da utilizzare per l’emissione della voce sono educabili, io credo che la rieducazione sia possibile. Non solo per il canto ma per parlare: quante persone parlano male perché non sanno respirare?».
Ha mai insegnato?
«Qualche volta ma sono sempre in tournée. Ho volontariamente scelto di vivere la musica attraverso i concerti. Non me la sento di assumermi la responsabilità con giovani studenti che poi si sentirebbero abbandonati. Ma un domani, chissà».
E a proposito di tournée, è reduce da quella lunghissima con Tosca, in giro per il mondo, dove avete presentato “Morabeza”, l’album da cui è anche stato tratto il documentario “Il suono della voce”.
«Un racconto dei nostri viaggi all’estero, negli anni. Purtroppo adesso le tournée sono assoggettate a situazioni politiche ed è sempre più difficile fare cose belle in questo brutto momento».
Il 30 aprile ha festeggiato la giornata mondiale del jazz con un cast tutto al femminile nel concerto della cantautrice Letizia Gambi: si lavora meglio tra donne?
«Con le donne ho sempre lavorato benissimo ma la questione femminile maschile l’ho superata da un po’ e ora guardo alle persone. Vero è che le donne hanno una capacità di resistenza diversa perché hanno subito per secoli condizionamenti e pregiudizi, ma ci stiamo riprendendo».
Sempre a scanso di rigurgiti: vogliamo dire due parole su “Il duce delinquente”?
«Sì. Un titolo efficace per lo spettacolo tratto dal libro “Mussolini, il capobanda”. I crimini privati e pubblici di Mussolini prima del 1938, quindi la morte di Gobetti, Gramsci, Matteotti, Amendola, dei fratelli Rosselli e di don Minzoni, quella del proprio figlio e di Ida Dalser, richiusi in manicomio».
Quando si dice che prima dell’alleanza con Hitler avesse fatto cose buone.
«Appunto. E lo spettacolo racconta questo periodo con ulteriori dettagli: oppositori e omosessuali perseguitati, libici rinchiusi in campo di concentramento, abissini gasati. Moni Ovadia ha dato voce a Mussolini e alle vittime».
E anche con Moni Ovadia il suo sodalizio è avviato da tempo.
«E continuerà quest’estate con un nuovo lavoro a tre, sempre con Aldo Cazzullo, sulla Bibbia. Cominciamo il 6 giugno e il 10 luglio saremo a Saluzzo».
Invece com’è andata nelle due date milanesi agli Arcimboldi con una star come Ornella Vanoni?
«Straordinaria. Ha cantato scalza, è coraggiosa, eversiva, con quella ironia verso la vita che ha chi non deve più dimostrare niente a nessuno e si può raccontare attraverso le canzoni. In Italia se hai superato una certa età, soprattutto se donna, sei considerata vecchia, e invece è proprio il momento in cui hai più cose da dire e da fare».
Lei non fa mistero di avere affrontato un trapianto di rene: quanta energia ci vuole per riprendere in mano vita e carriera dopo la malattia?
«Le malattie ti condizionano sempre ma salvarsi non è un atto eroico e non bisogna vivere da malati ma da combattenti. La musica mi ha aiutato tantissimo anche tra una dialisi e l’altra e ora sono grata al donatore sconosciuto che mi ha permesso di condurre una vita normale».
Con un calendario fittissimo: vogliamo dare qualche appuntamento?
«Il 16, 17 e 18 maggio sarò a Genova al Teatro Ivo Chiesa con “Donne di Nota”, per Acoustic Night 24, un cast tutto al femminile insieme a Beppe Gambetta, che presenterà alcuni brani di “Terra Madre”, il suo nuovo disco; il 14 giugno invece comincia il tour italiano con Tosca, “La bella estate”, con date e piazze in continuo aggiornamento, mentre il 23 luglio sarò al Maxxi di Roma con Sergio Cammariere, un artista con cui ho già lavorato con piacere perché mi ha dato fiducia e carta bianca e quando è così, il lavoro diventa anche tuo. Se accetto un progetto e mi si dà la possibilità di esprimere me stessa, non mi sento mai fuori luogo».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco