Home Articoli Rivista Idea «L’arte di De Filippo ponte nel futuro che parla a tutti»

«L’arte di De Filippo ponte nel futuro che parla a tutti»

Fausto Russo Alesi, regista e interprete, ha rivisitato con nove attori l’opera del maestro napoletano: «Era molto avanti, quelle pulsioni sono ancora attuali e riguardano da vicino il nostro rapporto con la politica»

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Come prima cosa mi prega di citare tutta la compagnia. «Me­ra­vigliosa, fatta di attori con provenienze diverse, generazioni diverse». Un bel lavoro di squadra difeso da un artista che nel teatro di regia, quello dove l’ubbidienza al re­gista demiurgo era regola fuori discussione, si è solidamente formato fin della scuola del Piccolo Teatro. Da lì arriva Fausto Russo Alesi, allievo e in­terprete della scuola di Luca Ronconi, di cui si rivela libero e grato battitore. Grato perché il maestro si sente in tutta la sua profondità di lettura, nell’analisi certosina del testo, nell’ascolto e nella resa dei non detti che riposano sul fondo di ogni battuta, pronti per essere rivelati da chi ha acquisito e assimilato la lezione fino a farne un metodo autonomo. Libero, appunto. Improntato a un lavoro di squadra fondato sulla fiducia reciproca e, pare proprio, sul divertimento collettivo. Tale appare l’operazione nata intorno a “L’arte della commedia” (al Teatro Ar­gen­tina di Roma fino a domenica 19), opera sorprendentemente attuale di Ed­u­ardo De Filippo di cui Fau­sto è regista e interprete, insieme a nove fidatissimi e valenti colleghi. David Meden, Sem Bon­ventre, Alex Cendron, Pao­lo Zuccari, Filippo Luna, Gen­naro De Sia, Imma Villa, De­mian Troiano Hackman, Da­vide Falbo.

Eccoli citati, giustamente. Ora mi dica come è nata l’idea di mettere in scena questo De Filippo, arrivato per lei dopo la personale rivisitazione in for­ma di monologo di “Natale in casa Cupiello”.
«Dopo quella prima immersione nella sua drammaturgia, dieci anni fa, ho sentito l’esigenza di reincontrarlo. La scelta è caduta su questo testo, non semplice, ma per me ci deve sempre essere un aggancio forte che dal testo possa essere motore di un progetto più ampio, a 360°. E questo in particolare, straordinario e atipico, dalla vita meno facile di altri, parla in modo diretto del nostro lavoro».

La vita e i travagli dell’attore dietro le quinte e prima di an­dare in scena.

«La messa in prosa della sua battaglia per l’apertura del San Ferdinando, il suo teatro a Napoli, e per l’affermazione del ruolo dell’artista e dell’autore in società. La prima parte è un ragionamento filosofico sulla funzione dell’arte e sulla sua ne­cessità, un’istanza politica verso il riconoscimento umano e professionale di questo lavoro nei confronti del potere e dello Stato; la seconda è la messa in campo di strumenti di cui dotare gli artisti. C’è bisogno di una risposta per non sentirsi estranei in un mondo che ci appartiene professionalmente e quando questa risposta non c’è, quando non c’è nemmeno un ascolto adeguato, si va a ledere un diritto di un essere umano».

Non è cambiato molto.

«Eduardo era avanti rispetto al suo tempo e interpretava quelle pulsioni molto contemporanee che sono un ponte non soltanto verso il futuro ma verso l’umano, l’universalità. Le difficoltà che poteva avere incontrato al debutto, la perplessità del pubblico non abituato, sono la parte metateatrale di questa commedia».

Che non è solo rivolta agli attori ma allarga lo sguardo al­la società tutta.
«Infatti i personaggi sono rappresentativi delle istanze di un’intera società. Si parla di sanità, religione, rapporti tra Stato e religione. C’è una maestra che ci parla di istruzione e di mancata tutela dell’istruzione. Tematiche ora scottanti che raccontano attraverso le magagne di un piccolo paese non specificato le magagne dell’Ita­lia tutta che sul fronte dei diritti fa da sempre un passo avanti e due indietro».

“Venga a teatro, eccellenza, venga a essere uno di noi”: una battuta particolarmente si­gnificativa.

«Qui è Eduardo che si rivolge al prefetto. Ma ancora oggi chiediamo che la politica si metta in dialogo profondo con gli artisti. Con la pandemia, che ha solo scoperchiato magagne latenti, è nata Unita (associazione di categoria fondata da interpreti del teatro e dell’audiovisivo nda)».

Durante la pandemia dalla politica era arrivata quella fantasiosa pensata del teatro sul web. La vedo dura. Lei è ottimista?

«Io credo che l’arte possa far evolvere l’essere umano. Parlo di me come fruitore, come lettore di Dostoevskij, come… ».

Alt: nei “Demoni” con la regia di Peter Stein interpretava Aleksej Nilic Kirillov, rappresentazione estrema del nichilismo.
«Ma un nichilismo che ha dietro un amore profondo per la vita. Aleksej incarna l’umano tentativo di confrontarsi con l’idea dell’esistenza di Dio. In lui ci sono le domande, la miseria, la fragilità di ogni essere umano. È una tessera di quel grande puzzle che sono “I demoni” dove, come per i “Karamazov”, non esiste uno senza l’altro, ma c’è una connessione profonda tra le diverse parti che sono poi la complessità dell’essere umano».

Uno degli ultimi lavori con Ronconi è stato “Santa Gio­vanna dei macelli” di Brecht, la paladina dei poveri e della classe operaia. Chi è oggi Gio­vanna Dark, c’è una nicchia di sopravvivenza per una figura così?

«Mi vengono in mente le tante Giovanne che operano nell’anonimato, tutte quelle persone che lavorano dal basso cercando di fare comunità, accogliendo e includendo chi altrimenti vivrebbe ai margini di un mondo che non è inclusivo. Quanto più si opera in luoghi dimenticati, tanto più si riesce ad agire in modo limpido e delicato».

Veniamo al cinema e alla sua partecipazione ai film di Marco Bellocchio: “Vincere”, “San­gue del mio sangue” e, più recentemente, “Esterno not­te”, dove interpretava Fran­cesco Cossiga e “Rapito”, storia vera e straziante di quello che è a tutti gli effetti un plagio.
«Sono orgoglioso di avere avuto l’opportunità di lavorare con Bellocchio: il suo è sempre uno sguardo libero dentro i nodi della nostra cultura che attraverso l’arte cerca di sciogliere. E considero un privilegio avere partecipato a un film come “Rapito”, coraggioso e senza tempo. Una storia che racconta di ascolto, empatia, e ci dice che quando si è in una condizione di potere bisogna mettersi nei panni di chi potere non ne ha».

Come ha lavorato su un personaggio così difficile, immagino lontano dalla sua cultura, come il padre ebreo a cui viene strappato il figlio per essere educato alla religione cattolica?

«Ho cercato di entrare nei pensieri di un padre, al di là della sua condizione di ebreo e del rapporto con la chiesa cattolica. Una condizione che la storia ci ripropone tutte le volte che chi ha potere pretende di annullare l’identità altrui per affermare la propria. Quello di Salomone Mortara è un personaggio che dedica tutta la vita a riconquistare il figlio, ma sempre con le armi della mitezza e dell’ascolto, al punto che prenderà addirittura in considerazione la possibilità di convertirsi: un incondizionato atto d’amore».

Il suo Cossiga era straordinariamente mimetico, ma di quella mimesi che arriva da dentro.

«Penso che quando si ha a che fare con personaggi così riconoscibili non si debba fare imitazione ma interpretazione. Bisogna avere un immaginario a cui riferirsi perché dietro a un modo di parlare, camminare, guardare, ci sono le ragioni di un essere umano che ha sempre una sfera privata da scoprire e immaginare».

C’è un ruolo che vorrebbe interpretare nel cinema?

«Mi piacerebbe interpretare una grande storia d’amore, ma quotidiana. Provare a raccontare la straordinarietà nell’ordinario. Una storia semplice che in piccoli dettagli racchiuda una grandezza».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco