Home Articoli Rivista Idea «All’enogastronomia serve un giornalismo che non fa sconti»

«All’enogastronomia serve un giornalismo che non fa sconti»

Il direttore di Gambero Rosso: «In questo settore il Piemonte è l’avanguardia del Paese, una terra che produce vini, tartufi e grandi personaggi. E presto assisteremo al fenomeno delle nuove generazioni che hanno già cominciato a cambiare il concetto di food & wine. In che modo? Semplificandolo»

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Il giornalismo enogastronomico è rappresentato da una miriade di testate più o meno specializzate, in gara tra loro per un mercato che non smette di essere ri­goglioso. Gam­bero Rosso è un brand tra i più qualificati. «Dal punto di vista dei numeri – puntualizza il suo direttore Marco Mensurati -, siamo i leader incontrastati di tutto ciò che è attualità del cibo. Fac­ciamo 5 milioni di utenti unici al me­se mentre i nostri principali competitor non su­perano i due milioni e mezzo. Non lo dico per vantarmi, ma perché questo ci costringe a una linea editoriale generalista, trasversale e totalizzante. Copria­mo la parte di servizio e le guide: dove e cosa andare a mangiare, ma anche cosa non mangiare. Sia­mo per una linea anche aggressiva, nel senso che se qualcosa non ci piace è nostro dovere dirlo. Così i nostri lettori si sentono orientati. Allo stesso mo­do, dobbiamo seguire i trend, raccontare la parte social. Ab­biamo fatto inchieste sul food porn e sul cibo social, sul cibo come strumento di comunicazione di massa. Essere punto di riferimento ci “condanna” a una linea editoriale a vocazione maggioritaria».

Immagino la difficoltà di gestire questo contesto variegato con un approccio giornalistico rigoroso.
«Io vengo da Repubblica, l’approccio giornalistico è uno solo. Sono qui da un anno e mezzo, ho avuto la fortuna di trovare una squadra di professionisti attrezzata. La nostra guida del vino è un riferimento mondiale per quanto riguarda i vini italiani. In Cina già tanti anni fa veniva stampata per stabilire il prezzo del vino italiano all’estero. Una guida realizzata con rigore e zelo. Ogni anno, da 30 anni a questa parte, assaggiamo alla cieca 40mila campioni di vino seguendo un’uniformità di giudizio».

Si può quindi passare dal giornalismo d’inchiesta – che lei ha frequentato – a quello enogastronomico, senza cam­bia­re abitudini?
«Si deve. Le cronache in questi giorni raccontano episodi de­plorevoli e quella del giornalismo è l’unica strada per gestire le linee intermedie tra il lato commerciale del food & wine e quello redazionale. Si deve fare e anche bene, così l’autorevolezza aumenta e la parte commerciale diviene ap­petibile, in un sistema virtuoso».

Gli argomenti da approfondire non mancano…
«Ho firmato 14 numeri mensili e ho sempre avuto l’imbarazzo della scelta. Ogni giorno facciamo una riunione di redazione come fossimo un quotidiano perché i nuovi media ci spingono ad agire come un’agenzia di stampa e la riunione dura tantissimo: ogni giornalista ha spunti, idee e contenuti. Po­tremmo fare un mensile al giorno».

Come vede il momento dell’enogastronomia italiana?
«Di splendida forma. Ma forse lo è da sempre, è uno dei settori in cui il Paese dà il meglio di sé. Ho mandato un paio di giornalisti a Cibus e sono tornati strapieni di spunti: startup, idee, tradizioni che si rinnovano. Questo sembra un luogo comune, ma parliamo davvero di un mondo che si reinventa continuamente».

Il suo giudizio su questa parte del Piemonte?
«È il traino del Paese, dove qua­si tutte le best pratices dell’enologia italiana sono state avviate. È un po’ l’avanguardia nazionale. Poi c’è forse l’Emi­lia Romagna dal punto di vista della creatività e della forza, non solo in­dustriale ma delle per­sone. Per un da­to antropologico e culturale, credo».

All’insegna di grandi personaggi.
«Famiglie, quindi addirittura gruppi di personaggi. Non solo i più famosi, parlo di chi da decenni tutte le mattine rinnova il miracolo. Lì c’è una terra che produce vini, tartufi e personaggi. Anche loro sono prodotti della terra».

E quanto è capace di rinnovarsi il mondo enogastronomico italiano?
«Fa parte del suo Dna, non si stanca mai, e poi c’è un tema che fra poco vedremo distintamente: quello delle nuove ge­nerazioni. Negli ultimi 10 anni c’è stata una riqualificazione, il rilancio dei 20-30enni che hanno preso l’aziendina (o l’aziendona) dei genitori e l’hanno aggiornata “filosoficamente”. Poi tutto entra in sintonia con il tempo, si riallinea ai gusti delle persone: il cibo pronto, leggero, fresco e sostenibile. Questo passaggio generazionale tra vecchi schemi, meccanismi e gerarchie verso nuovi gusti credo ci abbia portato alla vigilia di una nuova primavera, per tanti prodotti all’avanguardia. Bastava essere a Vinitaly o a una delle mille fiere per capire e sentire questa realtà. E il vostro territorio saprà esprimere im­portanti novità».

Si parte sempre dall’aspetto culturale?
«Esattamente. Ora c’è gente che ha studiato, l’aspetto culturale è dominate. La cosa che mi affascina è che non si cede alla tentazione di una sofisticazione del prodotto, ma alla sua “sottrazione” in linea con lo spirito del nostro tempo. Siamo al centro di una rivoluzione e sono convinto che piano piano si tornerà alla sostanza, oltre la forma. Preconizzo da mesi la scomparsa del “fine dining”. Oggi a una cena di alto livello o sei accompagnato da qualcuno che ti spiega o non capisci questa alta cucina un po’ fake. La rivoluzione parte dal territorio, dalla terra, per un ritorno alla semplificazione, alla sostanza».

Mi viene da pensare a personaggi come Carlo Petrini.
«Certo, ma sono intellettuali. Io parlo di una messa a terra di quel percorso».

A che punto è l’Italia nella sfida del mercato globale?
«È penalizzata da se stessa e dalla solita tendenza suicida a non fare mai sistema. A godere della divisione per fazioni. Un po’ come lo scenario che si è creato dopo l’arrivo, dall’estero, dei vini naturali. Da filosofia, è diventata mo­da, ne abbiamo smarrito il senso positivo e alimentato quello divisivo. Dopo vent’anni ci siamo accorti che c’erano anomalie, che qualcuno aveva riempito i vini convenzionali di nuovi concetti ma tutti volevano il vino buono. Tutto banalizzato per la tendenza a non fare sistema, quello che altrimenti elaborerebbe nuovi processi aprendo i confini. In Cina, ad esempio, l’Italia non esiste. Non funziona l’intermediazione. Il tema del non sistema penalizza un Paese che avrebbe tantissimo da dire ma non ci riesce tra contraffazione ed etichette che si confondono».

Ogni tanto torna anche la corruzione.
«A proposito, non sarebbe male se l’ordine dei giornalisti ragionasse su un codice per la critica gastronomica così come sono normate alcune questioni del giornalismo economico, per fare un esempio. Qui c’è un mondo in crisi, quello dell’editoria, che al contatto con il mondo molto ricco dell’industria enogastronomica va in cortocircuito. Basta leggere in giro: mai una critica negativa, i critici sono diventati consulenti. Gambero Rosso combatte questa deriva cercando di scrivere sempre quello che pensa, con rigore».

CHI È

Da poco più di un anno, dopo una carriera da cronista a Repubblica, è entrato nel gruppo del Gambero Rosso, casa editrice specializzata in enogastronomia controllata da Class Editore. Segue anche qui una linea rigorosa, ispirata al giornalismo d’inchiesta

COSA HA FATTO

Dal 1996 al 2023 per Repubblica ha firmato reportage di sport e su fatti di cronaca in Italia e all’estero. Il suo ultimo libro, datato 2020, è: “Scimmie al volante. L’inchiesta definitiva sulla classe politica che non ha saputo gestire la crisi del Covid-19”

COSA FA

Sostiene il cambiamento in atto nel mondo enogastronomico: una recente copertina del Gambero Rosso aveva in primo piano una lattina di… Bordeaux, per evidenziare la necessità di innovare tradizioni e abitudini