«Abbinare la poesia a una musica rude? Ecco la mia sfida»

A Torino l’attore e cantautore Elio D’Alessandro unisce teatro a musica punk: «Come facevano Battiato o i Cccp. L’identità supera l’idea di nazione e popolo. “Focus coro” è un progetto che unisce diversi linguaggi»

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«Allora amici di Torino e non. Gli ami­ci di Pappagallin­trappola mi ripropongono in chiusura di stagione. E allora siateci, prenotatevi». Gli appuntamenti per le serate indipendenti arrivano più in fretta dai profili social e questo, intercettato per caso seguendo la home, era per domenica scorsa. Giusto in tempo per essere afferrato. Lui è Elio D’Alessandro, attore e cantautore che a Torino ha tro­vato la sua patria di elezione, loro sono una compagnia teatrale che gestisce una sala nel quartiere Parella. Uno spazio di una cinquantina di posti dove si fa teatro ma anche altro, musica punk, per esempio, com’è il ca­so di questo Live programmato a chiusa di una stagione chiamata “Piume: Elio Live Solo, ultima piuma prima dell’estate”.

Non proprio lieve, come piuma.

«No ma siete stati avvertiti. Ve l’avevo detto che era un concerto nel quale mi sarei trasformato. Roba elettronica, non commerciale, ma che ambisce alle masse. Una serata molto disco, no acustico, no melodico: sto andando in questa direzione».

Per una che l’ha conosciuta mentre faceva Shakespeare è stata una sorpresa. Quando è cominciata la svolta?

«Non è una svolta. Una decina d’anni fa avevo una band che si chiamava “Il grande capo”, avevamo anche inciso un disco, “Promesse”, del 2016, poi ci siamo sciolti e ho passato sei an­ni di buco, facendo teatro ma continuando a scrivere canzoni a rotta di collo».

Quanto contano i testi nella musica elettronica?

«È il mio dibattito interiore. Re­sto convinto che i testi siano importanti perché attraverso un testo puoi regalare determinate suggestioni. Ma i miei testi sono pensati per essere inseriti su una ritmica spinta, dentro giochi sonori che non favoriscono una comprensione im­mediata delle parole. La canzone italiana invece ha una serie di codici che devono essere ri­spettati, a meno che tu non vo­glia essere una monade».

Come lei.
«Con prodromi illustri. Penso a Battiato ne “La voce del padrone” o a Giovanni Lindo Ferretti con i Cccp quando lavoravano su una musica punk, violenta ma con testi che avevano forte valenza sociale. Trovo in­te­res­sante immaginare di fare poesia su una musica più rude, su altre sonorità».

E da questa musica rude mi è arrivato questo verso: “In alto mare io che sono il tuo regalo al ballo in maschera del genere umano”.
«Un verso di “Orfani”, la seconda traccia dell’Ep uscito a gennaio, quattro pezzi con riferimenti precisi. Mi diverte, è la più allegra che ho».

Orfani?
«Una riflessione sull’identità e sulla figura del padre intesa in senso ampio. Ho fatto un lavoro armonico sulla musica che cresce dando l’idea di una speranza ma con la consapevolezza che siamo orfani: per la perdita delle generazioni precedenti e per la perdita della memoria».
Dimenticare il passato è pericoloso, senza memoria si ripetono gli stessi errori, dice Pa­solini nel “Pilade” che lei ha in­terpretato qualche anno fa, di­retto da Daniele Salvo.
«Infatti. Contro il culto della ra­gione e l’ossessione per il progresso di Oreste, Pilade rappresenta lo sguardo al passato. Pi­lade si allontana completamente dalla società capitalistica, ab­bandonando tutto. È interes­san­te notare come incarni perfettamente la disperazione e la solitudine dell’artista che poi era la solitudine stessa di Pa­solini che non riusciva a schierarsi e si era trovato da solo, abbandonato da tutti. Forse l’unica condizione in cui si può fare arte, davvero liberi da condizionamenti».

Come coltivare la nostalgia sen­za essere anacronistici?
«Credo che la risposta sia nella poesia che racchiude la forza del passato perché le sue parole ri­suonano anche oggi. E penso all’importanza del patrimonio im­materiale, quel patrimonio non declinabile né come documento scritto né come metaverso, dove tutto nasce e muore in un secondo, ma quello delle tradizioni, recuperato e tramandato attraverso l’oralità».

Il teatro quale ruolo ha ancora?
«Importantissimo. Il teatro guar­da al passato e pensa al futuro nel qui e ora. I teatranti sono portatori del patrimonio immateriale dell’umanità nel senso che recuperandolo, approfondendolo, lo trasmettono al futuro attraverso il presente».

Ironia della sorte, il 10 ottobre scorso, a tre giorni dall’attacco di Hamas e di tutto quello che ne sta tuttora seguendo, la compagnia Mulino di Amleto di cui fa parte, ha debuttato con uno spettacolo sul conflitto arabo-isra­eliano, diretto da Marco Lo­renzi, che riproporrete la pros­sima stagione.

«”Come gli uccelli”, un testo folgorante che ha come scenario uno dei conflitti più irrisolti della storia ma parla di identità in senso profondo, l’identità che va oltre la tribù, gli schieramenti, il colore della pelle. L’autore, Wajdi Mo­uawad, nato in Li­bano, cresciuto in Canada e residente a Parigi dove dirige il Théâtre de la Colline, è uno che il conflitto di identità lo ha vissuto su di sé».

E cosa è l’identità oltre le ap­partenenze?

«L’identità del singolo significa che essere israeliano o palestinese in fondo è la stessa cosa. Quello che preme all’autore è svelare il vero concetto di identità, che supera quello di nazione o di popolo».

Ma le nazioni si stanno facendo la guerra.

«C’è una forte strumentalizzazione di questo conflitto da parte dei governi, che hanno tutto l’interesse a mantenerlo in vita. In realtà dal punto di vista comunitario il conflitto non esiste e si vivrebbe nella pace. Non a caso un atto terroristico ha creato il pretesto per un genocidio. Un buco nero nella storia dell’umanità».

Eppure i conflitti intestini esistono dalla notte dei tempi. Facciamo un salto indietro nella sua biografia teatrale e mi racconti di quando diresse “I sette contro Tebe”, ovvero il conflitto fatale tra due fratelli.
«Nella mia versione, un po’ per scelta un po’ per necessità, il conflitto tra Eteocle e Polinice era risolto come il conflitto di un uomo che si guarda allo specchio».

Quindi ritorniamo all’identità del singolo, al conflitto interiore dell’individuo?
«Sì, un conflitto che può portare all’autodistruzione. Com’è possibile che nella lotta muoiano entrambi, che non ci sia un vincitore?».

Meglio il coro? Mi racconti del Focus dedicato.

«Si chiama appunto “Focus coro” ed è un progetto in cui ho inserito tutti i colleghi di Torino con cui ho collaborato nel tem­po. Un gruppo di venti persone provenienti da realtà e percorsi diversi per creare un bacino di condivisione e amicizia che esuli da progetti strettamente legati alla produzione. Un lavoro corale che ha a che fare con il teatro, la voce e il suo suono, con le parole, con il canto».

Non ne uscirà uno spettacolo?

«Chissà, magari mi inventerò una formula. Ma con le produzioni di adesso ci vorrà tempo».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco