«La parità di genere è una leva per la competitività delle aziende»

Le Pmi devono essere protagoniste del cambiamento del paradigma socioeconomico, perché politiche aziendali che riducono il gender gap portano con sé una crescita delle competenze e un incremento di qualità dei processi

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Il gender gap è un tema complesso e tutt’altro che risolto e lavorativamente parlando, purtroppo, la strada per la parità di genere è ancora lunga. Ben ne sono consapevoli Gariele Zanon e Rita Pierandrea di Be4 Innovation, realtà che accompagna le aziende ad ottenere la certificazione relativa alla parità di genere attraverso specifici servizi di consulenza professionale.
«In realtà», sottolinea Rita Pierandrea, «ormai da tempo, sono molti gli studi che certificano come le aziende che hanno messo in campo piani d’azione per garantirla raggiungano maggiori profitti, tutelando al contempo il benessere delle persone. Pare poi che, le organizzazioni che hanno una presenza di donne superiore al 30% a livello di top management raggiungano risultati finanziari più alti rispetto a quelle in cui è ancora presente il gender gap. Inoltre, quelle con una maggiore rappresentanza femminile nei Cda hanno il 27% di probabilità in più di produrre una performance migliore rispetto ai competitor. E ancora, l’80% delle aziende che performano meglio nei mercati di riferimento ha almeno una donna nel loro team esecutivo».

Ed in Italia come siamo messi?

«Continuano le sfide sulla mancanza di politiche di congedo parentale equilibrate e l’accesso limitato a servizi di cura per i bambini. Il risultato è quello di un peso gravoso per lo sviluppo socioeconomico del nostro Paese, con un impatto sproporzionato sulle donne. E non solo… Pren­diamo, ad esempio, il divario tra congedo di maternità per un totale di 5 mesi e quello di paternità per un totale di 10 giorni. Legislazione – giustificata parzialmente da questioni biologiche legate alla gestazione – che tuttavia rimane uno dei segnali più evidenti di come la donna ricopra il ruolo di principale care-giver agli occhi dello Stato. Questa visione pone delle evidenti limitazioni alle opportunità di carriera delle donne e rallenta il loro avanzamento professionale, costringendole a fare compromessi tra lavoro e famiglia. La maternità nel nostro Paese diviene dunque una penalizzazione. Secondo i dati di Confcommercio, nella fascia di età 25-54 anni se c’è un figlio minore, il tasso di occupazione per le mamme si ferma al 63%, contro il 90,4% di quello dei papà, e con due figli minori scende fino al 56,1%, mentre i padri che lavorano sono ancora di più (90,8%), con un divario che sale a 34 punti percentuali. Si aggiunga a questo il gap salariale tra uomini e donne che varia in base a livello d’istruzione, ma che rimane una realtà apparentemente inossidabile; le difficoltà che le donne sperimentano per raggiungere posizioni manageriali; i bias gestionali e nei processi HR condotti da gruppi di valutatori perlopiù di genere maschile».

In questo quadro cosa si può e deve fare?
«Innanzitutto non dimenticare che la parità di genere è anche l’Obiettivo 5 dell’Agenda Onu 2030 che si propone di eliminare ogni forma di discriminazione e violenza per tutte le donne, di tutte le età. L’Obiettivo punta alla parità tra tutte le donne e le ragazze nei diritti e nell’accesso alle risorse economiche, naturali e tecnologiche, nonché alla piena ed efficace partecipazione delle donne e alla pari opportunità di leadership a tutti i livelli decisionali politici ed economici. A frenare la marcia verso la parità soprattutto fattori culturali che si traducono poi in disuguaglianze “concrete” co­me il gap salariale, la scarsa presenza femminile ai vertici delle organizzazioni, ma anche la mancanza di adeguate azioni per garantire il work-life balance. È altrettanto vero però che la transizione culturale che richiede il raggiungimento di un futuro più equo non può avvenire esclusivamente tramite gli organi di Stato, ma è compito delle aziende rendersi protagoniste di questa trasformazione sia per l’effetto che questo potrebbe avere sull’economia dell’Italia – infatti, tutte le organizzazioni internazionali stimano l’impatto positivo e significativo della parità di genere sul Pil- sia per una migliore gestione delle proprie risorse umane ed economiche. Affrontare la disparità di genere nei luoghi di lavoro richiede un approccio multidimensionale e collaborativo. Le aziende devono assumersi la responsabilità di creare un ambiente inclusivo, promuovendo politiche di pari opportunità, garantendo la parità salariale per lavori equivalenti e incoraggiando la diversità in posizioni di leadership, facendosi così portavoce di un cambiamento nel paradigma sociale del nostro Paese».

Ecco perché signora Pie­ran­drea è importante orien­tare le imprese verso l’ottenimento della certificazione di parità di genere…
«Esatto. Bisogna sapere che la Certificazione è rivolta a tutte le imprese ubicate sul territorio nazionale a prescindere dal numero di addetti presenti. Inoltre, la valutazione dell’idoneità dell’impresa all’ottenimento della certificazione sulla parità di genere si basa su 6 aree di azione: Cultura e strategia, Governance, Processi HR, Opportunità di crescita ed inclusione delle donne in azienda, Equità remunerativa per genere, Tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro.

Ciascuna di queste aree verrà considerata attraverso degli strumenti di misurazione chiamati KPI (Key Performance Indicator). Gli indicatori qualitativi misureranno la presenza o non presenza di procedure conformi alla creazione di un ambiente di lavoro equo, mentre quelli quantitativi “verranno misurati in termini di delta % rispetto a un valore interno aziendale o al valore medio di riferimento nazionale o del tipo di attività economica”. Ciascuna area avrà un peso nella valutazione finale, il cui punteggio minimo dovrà essere del 60% per consentire l’accesso alla certificazione. Per le Pmi i vantaggi di seguire questo percorso gestionale volto alla certificazione sono molteplici. Infatti, oltre a migliorare la qualità del rapporto con i propri dipendenti, l’azienda potrà ottenere un esonero contributivo superiore all’1% e nel limite massimo di 50.000 euro annui. Il bollino rosa ottenuto con la certificazione darà inoltre accesso a una premialità in caso di partecipazione a bandi europei e regionali. In aggiunta, sono stati previsti bandi nazionali e regionali per sostenere i costi dell’erogazione della certificazione che avrà durata di due anni e dovrà essere aggiornata con tale scadenza al fine di monitorare i progressi e/o il mantenimento degli standard aziendali per la parità di genere».

Per concludere, quali i servizi da voi offerti?
«Dopo l’audit iniziale di controllo, seguiamo le Pmi nella verifica del punteggio rispetto ai canoni stabiliti dall’UNI/PdR 125; garantiamo consulenza sulle migliori strategie e le principali procedure per migliorare il tuo punteggio. Ed insieme costruiamo il sistema di gestione, definiamo i KPI di controllo e loro monitoraggio nel tempo. Offriamo poi, accompagnamento alla certificazione sulla “Parità di genere” con assistenza nella fase di audit dell’organismo di certificazione e le tutte le fasi del mantenimento della certificazione nel tempo in conformità con l’evoluzione degli standard qualitativi richiesti».