Oh, quanta strada
nei miei sandali
Quanta ne avrà fatta Bartali
Quel naso triste
come una salita
Quegli occhi allegri
da italiano in gita
E i francesi ci rispettano
Che le palle ancora gli girano…
Bartali, Coppi, Pantani. Ma anche Gimondi, Nencini, Bottecchia, Nibali. Ecco gli italiani che si sono mangiati la Grand Boucle in un boccone, facendo girare le palle ai francesi come canta Paolo Conte nella sua Bartali.
Perché per i francesi che gli italiani portassero a casa la vittoria al Tour de France da sempre è stata una specie di onta pesante da metabolizzare, non solo in senso sportivo, ma anche in virtù di un rapporto di amore-odio per quelli che, spesso, vengono definiti i “cugini transalpini”.
Del resto che non fossero contenti basta ricordare quanto disse nel 1938, anno della prima vittoria di Bartali al Tour, Albert François Lebrun, ultimo presidente della Terza Repubblica francese: «Ils gagnent tous, ces italiens» («Vincono tutti, questi italiani»).
E sempre nel 1938 a Parigi, qualche settimana prima, gli italiani di Vittorio Pozzo portavano a casa anche la seconda vittoria consecutiva nella Coppa Rimet, il mondiale di calcio di allora, battendo in finale 4 a 2 l’Ungheria con due doppiette di Piola e Colaussi, nel vecchio stadio di legno di Colombes, poco fuori la Ville Lumière. Perdipiù dopo aver sconfitto proprio i transalpini, padroni di casa per 3 a 1 nei quarti di finale.
Poi la guerra, nel 1940, accende ulteriormente gli animi tra francesi ed italiani. È il momento della “pugnalata alla schiena”, decisa da Mussolini per assalire una Francia ormai alla frutta, praticamente già messa in ginocchio dall’occupazione nazista, e approfittarne al fine di avere qualche rendita a buon prezzo nei confronti dei transalpini e sedere al banchetto dell’armistizio voluto da Pétain. Ma questa è un’altra storia.
Paolo Conte non smania per Bartali, è un “coppiano” fin da bambino, anche per la vicinanza di Asti con Castellania, nel Tortonese in provincia di Alessandria, un’ottantina di anime sul fiume Scrivia, paese natale di Fostò, come i francesi chiamavano Fausto Coppi.
Da adolescente Conte è affascinato dalle cronache radiofoniche del Giro e del Tour, quelle di Mario Ferretti: «Un uomo solo è al comando, con la sua maglia biancoceleste. Il suo nome è Fausto Coppi». È la diciassettesima tappa del Giro del 1949, la tappa “francese” perché da Cuneo a Pinerolo si sconfina tra il Colle della Maddalena ed il Colle del Sestriere. In mezzo il Vars (2.111 metri, 9 km al 12%), l’Izoard (2.361 metri, 35 km all’11,3%) e il Monginevro, più dolce, il valico di Annibale e dei suoi elefanti, (1.860 metri, 22 km al 9,4%). Coppi, dopo un problema alla catena che lo costringe a fermarsi per qualche minuto, riparte tutto solo, raggiunge Bartali e Volpi che nel frattempo erano scattati, li supera e sale sui cinque colli da solo, sempre in testa. Alla fine Bartali arriva secondo a Pinerolo, con quasi 12 minuti di distacco, 11’ 52” per la precisione. Per l’Airone, per il Campionissimo una corsa trionfale fino al traguardo finale di Monza.
E vai che io sto qui
e aspetto Bartali
Scalpitando sui miei sandali
Da quella curva spunterà
Quel naso triste
da italiano allegro
Ma Conte non scrive di Coppi. Vede in Bartali l’immagine dell’italiano che ce la fa, forte della sua testarda voglia di vincere, del suo sacrificio e della sua fatica per raggiungere il traguardo. Il toscanaccio, per il cantautore avvocato, è l’emblema di un’Italia che rinasce dopo il dramma della guerra sanguinosa finita il 25 aprile del 1945 con la Liberazione.
Che Bartali sia, come Coppi in modo diverso, un emblema nazionale lo si scopre meglio l’anno precedente. Siamo nel 1948, al trentacinquesimo Tour de France. Ginettaccio vince la sua seconda Grande Boucle dopo quella del 1938. È un record, detiene due vittorie al Tour, due come Coppi (1949 e 1952) e come Bottecchia (1924 e 1925), ma nessuno come lui, e i francesi lì a rosicare, con un lasso di tempo così ampio. Complice la guerra, si potrà dire, ma la verità è che il momento storico è favorevole ai polpacci del tricolore italiano, come riconosciuto da tutti in quegli anni.
Bartali è proprio un emblema nell’immaginario collettivo del Paese. Intanto durante la guerra salva dalla deportazione e dallo sterminio decine di ebrei italiani per i quali contrabbanda documenti d’identità falsi nella canna della bicicletta. E lo diventa ancora di più proprio in quei giorni del Tour del ‘48 in cui la fa da padrone, quando uno studente di giurisprudenza affronta davanti a Montecitorio Palmiro Togliatti, segretario del Pci. Antonio Pallante spara tre colpi quasi a bruciapelo. Il leader comunista rimane ferito, l’Italia si infiamma. Si conteranno una trentina di morti in due giorni negli scontri dei manifestanti con la polizia. Dal letto di ospedale Togliatti inviterà alla calma i militanti del Pci. Ma anche tre vittorie di tappa consecutive di Bartali in maglia gialla nelle stesse ore e nei giorni successivi all’attentato, complice una serie di telefonate del presidente del consiglio De Gasperi, contribuiscono ad allentare la tensione che esplode nel Paese.
Il tempo passa e si arriva ad oggi. Fino alla fine dei suoi giorni, nel maggio del 2000, Ginettaccio smentisce di essere stato l’uomo che ha salvato l’Italia da una guerra civile.
E incontra Paolo Conte per la prima volta alla fine degli anni Ottanta. La canzone è di dieci anni prima. Non gliele manda a dire il toscanaccio, anzi. I bene informati parlano di un colloquio poco diplomatico: «Sappi che preferisco la versione cantata da Jannacci – incalza Ginettaccio – e c’è una strofa che mi fa incazzare. Cos’è ‘sta storia del naso triste come una salita? Io a naso non sto male, ma te ti sei visto che nappa di ritrovi?».
E i francesi ci rispettano
Che le palle ancora gli girano
E tu mi fai: “Dobbiamo
andare al cine”
Vai al cine, vacci tu!
Zazarazaz. zazarazaz, zazarazarazazarazaz…
Articolo a cura di Luis Cabasés