Un Festival che è anche un premio in un piccolo borgo, Ostana, in Valle Po, che è anche una magia da vivere. Un momento di ascolto, condivisione, recupero del passato e delle tradizioni linguistiche e di creazione dell’identità individuale e collettiva che si svolgerà in tre giorni il 28, il 29 e 30 giugno. Il “Premio Ostana: Scritture in Lingua Madre”, nato per difendere e promuovere la biodiversità linguistico-culturale in tutto il mondo, è un viaggio che affrontiamo con Mariona Miret, che si occupa della missione internazionale della Chambra d’Oc e della rassegna. Il programma completo degli eventi è disponibile e costantemente aggiornato sul sito www.premiostana.it: incontri aperti e gratuiti.
La parola chiave della sua ricerca e del Premio è condivisione.
«Noi facciamo tutto e viviamo questa esperienza “en convivéncia” che è una parola occitana dei trovatori, medievale, che voleva dire “l’arte di vivere insieme”. E quindi per noi è importante che siamo tutti “allo stesso livello”. Ci sono otto autori che vengono premiati, ma le persone possono stare con loro tutto il weekend. Quindi siamo “alla stessa altezza”: parliamo, conversiamo, ci sediamo sulle pietre di Ostana senza bisogno di una sedia per parlare del mondo, condividere pensieri, visioni, sia di lingue minoritarie che maggioritarie. Troviamo dei punti di incontro proprio per questa atmosfera che vogliamo creare, che creano, in realtà, già le lingue e gli otto premiati che insieme portano dei mondi che ci fanno vedere quanto siamo vicini, malgrado la lontananza di queste lingue».
Mi ha colpito una frase che ha detto: «Non è importante comprendere, ma ascoltare».
«Tante volte noi vogliamo capire tutto quello che viene detto, ma non siamo pronti all’ascolto. L’ascolto è un’altra capacità, è un altro livello, è un’altra qualità di attenzione. E quando ci mettiamo all’ascolto, ci si svelano nuove possibilità, nuovi significati, e noi vogliamo far ascoltare il suono delle lingue madri, anche senza capirle, perché alcune le capiremo, ma altre no. Ma farle ascoltare vuol dire moltissimo. La traduzione viene solo dopo».
Qual è la finalità del Premio?
«Vogliamo mettere insieme autori di lingua madre di tutto il mondo per far capire il valore di questa diversità che noi abbiamo già nel nostro territorio, in Piemonte, con la lingua occitana, il franco provenzale, il walser, il piemontese. Si tratta di un’occasione per fare un punto, per capire la situazione in altre parti del mondo, il grande lavoro che si sta facendo. In alcuni casi estremi la protezione della propria lingua minoritaria, però, viene ghettizzata, punita, anche con la morte. Quindi da un lato, noi vorremmo rendere normali lingue che una maggioranza ha reso minoritarie, farne ascoltare la bellezza in un luogo, dall’altro, attraverso la riflessione condivisa, sensibilizzare la popolazione sull’importanza dei diritti linguistici e sulla necessità di mantenere la diversità linguistica perché è una ricchezza».
Lei stessa rappresenta più culture, più lingue, più anime.
«Io sono catalana, sono nata in Catalogna, la mia lingua madre è il catalano e l’ho parlato sempre con la mia famiglia. Essendo nata in una minoranza, senti una fratellanza quasi istantanea con le altre minoranze del mondo. Poi studiando ho fatto filologia catalana per una sorta di compromesso con la mia lingua d’identità. E poi viaggiando all’estero ho vissuto un anno in Belgio, un anno in Italia. Sono stata in Sardegna perché ero stata invitata a fare volontariato in una casa editrice che pubblica solo in sardo, e soprattutto i libri per bambini. E questa esperienza mi ha fatto capire che il sardo era molto più in pericolo della mia lingua, al punto di sentire quasi dolore».
Che cosa ha pensato?
«Sono nate soprattutto delle domande: “Ma con chi posso parlare sardo? Con chi posso fare pratica? Perché le persone non lo valorizzano e lo stanno abbandonando?”. Avevo degli interrogativi che per me, come catalana, erano scontati, perché noi abbiamo mantenuto la lingua e l’identità e sono importantissime, ma in alcuni luoghi sembrava che le persone stessero abbandonando, con la lingua, una parte della loro storia».
C’è stata anche un’altra rivelazione.
«Ho capito che volevo occuparmi delle lingue minoritarie, perché dal punto di vista della mia minoranza volevo aiutare le altre e aumentare la mia conoscenza. Quindi mi sono avvicinato alle lingue minoritarie anche a livello europeo perché mi piace molto capire cosa fanno gli altri, condividere tra di noi e collaborare».
Perché venire a Ostana?
«Si tratta di un posto unico e magico. La prima volta che ci sono andata, mi è rimasto nel cuore e ho detto: “Voglio lavorare qui e con queste persone”. Questo posto, la magia, la bellezza del paesaggio del Monviso, che è un simbolo delle vallate occitane, è come se elevassero o innalzassero ogni cosa. Tutto quello che succede lì diventa speciale. Le persone si aprono molto, il paesaggio è accogliente e chi arriva si mette a parlare nella propria lingua senza bisogno di far cambiare quelle degli altri. Quindi ci sono tante sfumature che uno impara sulla propria identità attraverso l’identità degli altri. E poi, ovviamente, c’è la possibilità di sentire l’Occitano, che è parte del territorio e anima del Premio».
Avete anche un motto tratto da un canto degli anni ’70.
«Vorremmo farvelo imparare: “Lo fuec es encà ros dessot la brasa”, “Il fuoco è ancora rosso sotto le braci”. Vogliamo che le persone capiscano quali sono queste braci e questo fuoco, e che vengano ad ascoltare queste lingue e a godersele con noi, perché le lingue servono per parlare, per comunicare, per condividere letteratura, amore, passione, tutti i giorni, con tutti».
Articolo a cura di Daniele Vaira