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«Follia dell’arte, emozioni del corpo: ecco il mio mondo»

Silvia Degrandi e l’idea di un teatro patologico che non l’ha mai convinta: «Tutto passa dalla tua immagine e in scena devi esserne consapevole. Con “Amleta” facciamo rete contro gli abusi»

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«Voglio essere serena». Que­sta, sem­­plice­mente, era stata la risposta alla domanda delle domande rivoltale da uno dei suoi maestri alla scuola del Piccolo Teatro di Milano. Cosa vuoi fare da grande. Glielo domandò Massimo De Francovich, un gigante del teatro di prosa, investito da Luca Ronconi, allora direttore del Teatro e della scuola, del ruolo di docente e regista di uno spettacolo con gli ex allievi. Troppo scontato rispondere voglio fare l’attrice, troppo compiacente nei confronti di chi ti ha appena detto che il teatro è sofferenza. E allora no, Silvia Degrandi non ci sta. L’idea che il teatro possa essere patologico, indissolubilmente legato alla sofferenza, non la convince. Né allora, giovane e vulnerabile allieva non ancora pronta per mettersi a nudo, né ora, che a nudo si è messa dopo un impegnativo lavoro su sé stessa che dal teatro l’ha portata al cinema d’autore, da Paolo Virzì a Pupi Avati fino a “Parthenope” di Paolo Sor­ren­tino, sui cui non si pronuncia prima dell’uscita in Italia prevista per il 19 settembre. Può invece raccontarci di “Animale umano”, film girato tra Italia, Spagna e Messico e presentato in anteprima il 26 giugno scorso presso Uci Cinemas Torino Lingotto da Film Commission Torino Piemonte.

Però mi spieghi prima perché molti attori dicono di fare teatro per non andare in terapia. Una provocazione o gli attori sono patologici davvero?
«Io in terapia ci sono andata e so bene che il dolore è inscritto nella vita ma l’idea che l’arte sia tale solo se legata alla sofferenza non mi appartiene. La follia dell’arte è altra cosa, è magia, astrazione, rischio, è qualcosa di non rassicurante che però è ben diverso dalla patologia».

Perché ha sentito il bisogno di fare psicoterapia?
«Sentivo la responsabilità della mia personale valigetta di emozioni e anche grazie agli strumenti appresi al Piccolo, ho capito che dovevo imparare attraverso il corpo. Una volta la psicologia partiva dalla mente per arrivare al corpo, ora succede il contrario. Io non posso pensare a una conoscenza che non pas­si attraverso il corpo e con la mente soltanto mi sarei persa tante emozioni».

Certamente il corpo per un’at­trice è imprescindibile.
«Lo stare di fronte a una macchina da presa o davanti a un pubblico prevede una consapevolezza assoluta del proprio corpo, anche per comunicare secondo codici e gesti convenzionali. Se per esempio ho i piedi inclinati verso l’interno comunico un sentimento di paura o di timidezza, ma devo essere profondamente consapevole».

E come si acquisisce questa consapevolezza?
«Con esercizi di rilassamento particolari: rilassamento non inteso come abbandono e resa ma come concentrazione che, paradossalmente, rende possibile anche lo scatto».

Queste acquisizioni arrivano dal Piccolo o sono successive?
«Il Piccolo è stata un’esperienza formativa potentissima ma anche molto violenta. Una scuola con una produzione interna ti fa sentire come un prodotto, come qualcosa che deve andare in scena in funzione di un’idea e io dopo quella formazione ho avuto bisogno di una controformazione».

Capisco. Però De Francovich le affidò un ruolo per nulla canonico.
«Flamminia ne “Gli innamorati” di Goldoni. Per la prima volta un ruolo comico che ha illuminato una parte di me. In Italia se sei piacente è molto difficile che non ti affidino il ruolo di belloccia».

La bellezza è stata mai un problema per lei, si è mai castigata in qualche modo?
«La bellezza è un problema con sé stessi e io sì, mi sono spesso castigata, sia nell’abbigliamento sia nelle relazioni. Sono consapevole dell’impatto forte, nel bene e nel male, perché è vero che ti apre delle vie ma te ne chiude altre».

Ha mai ricevuto proposte indecenti?

«Sì e ho reagito come una ragazzina. Mi sono sentita sporca, in colpa e sono scappata. Ora a certe battute saprei come rispondere ma non è stato sempre così. Per una donna presentarsi a una festa da sola è ancora oggi diverso dal presentarsi ac­compagnata e nel nostro settore si è ancora più a rischio. Non sa quante colleghe han­no subito abusi e prepotenze o si sono sentite dire “sii più puttana”».

Da uomini colti o mediamente acculturati: se ne uscirà pri­ma o poi?
«È un discorso complesso e delicato perché prevede una presa di coscienza da parte nostra: noi siamo ancora in cerca di gratificazioni esterne e a volte tendiamo a sentire che un uomo, un regista, ci possa aiutare. In realtà il riconoscimento, se lo si aspetta da fuori, è quasi sempre foriero di disavventure».

Allora occorre strutturarsi, fare rete.

«È quello che sta facendo “Amleta”(associazione di promozione sociale nata per contrastare la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo, nda): un lavoro attento di raccolta dati in collaborazione con avvocati e addetti ai lavori che mira tra l’altro a ristabilire un equilibrio di genere negli incarichi e nei ruoli di potere. Oltre a essere un osservatorio co­stante per contrastare violenza e molestie nei luoghi di lavoro».

Tutto bene sul set di “Animale umano”?
«Beh, direi. Alessandro Pu­gno, il regista, è stato mio compagno di banco al liceo di Casale Monferrato. Eravamo una coppia comica e siamo tuttora molto amici, legati da un filo, nonostante la distanza, visto che lui si è trasferito a Madrid».

Che ruolo le ha affidato?
«Sono la madre del protagonista, una donna malata, sofferente, che morirà quasi subito e che ha con il figlio ragazzino un rapporto simbiotico».

In che senso si parla di animale umano?
«Nel senso che c’è un rapporto stretto, declinato in vari capitoli, tra il ragazzino che sogna di morire da eroe in un’arena andalusa e l’animale, un vitello allevato per combattere nella tauromachia».

La morte è presente in diverse accezioni.
«Sì e la tauromachia è innanzitutto un pretesto per parlare di morte, non come evento extraquotidiano ma come parte della vita. Il film è una sorta di racconto di formazione attraverso il parallelo tra le vite di due cuccioli».

E lei è la madre di uno dei due.

«Il nido instabile da cui lui parte. Una madre con una valigia piena di errori».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco

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