«Il food del futuro è già nel presente: abitudini cambiate»

Carmine Garzia guida l’Osservatorio che a Pollenzo ha presentato i risultati dello studio su dieci anni di performance: «I risultati migliori arrivano dall’export, con i vini piemontesi in primo piano»

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Dieci anni di food italiano, ovvero dieci anni di crescita. In cifre, la crescita è passata da un valore di 53 miliardi nel 2012 a circa 90 miliardi nel 2023. Le esportazioni hanno visto una crescita continua, passando nello stesso periodo da 23 a 44 miliardi di euro. E gli occupati nella sola industria di trasformazione alimentare sono aumentati da 449mila a 488mila, quindi con una crescita record di circa 39mila unità, in un periodo che complessivamente non è stato particolarmente positivo per l’economia italiana. E questa tendenza non si ferma: nel prosieguo del 2024 infatti, si prevede che cresceranno a tassi superiori alla media di mercato settori tipici del Made in Italy come caffè, olio, distillati e vino.
Ma questa crescita va governata e gestita con realismo e buon senso. Carlin Petrini aggiunge: con cooperazione.
Giovedì scorso a Pollenzo il professor Carmine Garzia, ha presentato i risultati dello studio condotto dall’Università delle Scienze Gastronomiche assieme a Ceresio Investors denominato “Food Industry Monitor. Dieci anni di food italiano”. «Il primo dato interessante – ci ha spiegato il responsabile scientifico del­l’Os­­ser­vatorio, docente di Ma­nagement all’UniSG di Pol­lenzo – è la crescita eccezionale del 2023 pari al 10% che però in parte è dipesa dall’inflazione e che in termini reali risulta del 4%. Ma il comparto è andato bene sia sul fronte interno sia nell’export del food di qualità, un tema rilevante, autentico propulsore del sistema Italia. Con un problema: il rallentamento dei consumi delle famiglie e la crescita economica. Il messaggio che ricaviamo potrebbe quindi essere questo: attenzione che, se ci aspettiamo risultati buoni dal food di qualità, questi arriveranno dall’estero».

Un esempio più specifico?

«Penso al vino di alta gamma, in particolare per il Piemonte che ha un’offerta di vini diversi rispetto alla produzione di massa in parte anche toscana, ma principalmente veneta ed emiliana. Interes­sante sarà vedere come ci muoveremo sullo scenario internazionale perché proprio dalle esportazioni premium dipenderà la capacità del settore di tenere o meno».

Quali altri possibili sviluppi saranno da analizzare?

«C’è il tema della produttività di aziende piccole che non riescono ad assorbire perdite quando magari ci sono oscillazioni delle materie prime. È un problema che suggerisce un altro argomento. E cioè: piccolo è bello, ma al tempo stesso piccolo è vulnerabile. Quindi per le aziende italiane servirà una riflessione, perché ci si confronta con player giganteschi e si prospetta un problema anche per le dinamiche di approvvigionamento».

Carlin Petrini ha parlato di “limiti” da considerare: il paradigma non può più essere quello della crescita del Pil ad ogni costo.

«Petrini ha ragione, non si può pensare di crescere sempre. Aggiungo – in chiave piemontese – che l’obiettivo deve essere piuttosto quello di crescere per essere più forti, dunque non crescere per crescere e per consumare (vedi fast fashion), ma per rafforzare le aziende e consolidarle, mi­gliorando la redditività, ab­bracciando l’innovazione e affrontando serenamente an­che le difficoltà dei mercati».

Quanto incideranno fattori come la transizione climatica sulle scelte dei cittadini?

«C’è un chiaro trend salutista che le aziende devono agganciare, però per qualsiasi innovazione ci vuole appunto redditività. Le aziende però han­no spesso sacrificato la cre­scita alla redditività. Il settore cresce al ritmo del 5,5 per cento su certi prodotti e richiede investimenti, anche nella comunicazione. Il mon­do del Food & Beverage inserziona più di tutti a livello pubblicitario. Quindi, la visione del futuro è positiva, ma attenzione che non viene da sola».

Come immagina la relazione del Fim tra dieci anni?

«Intanto se penso a dieci anni fa, quando è iniziato questo studio, non avrei scommesso un euro che il food sarebbe diventato il motore dell’economia. C’era qualcosa nell’aria – eravamo alla vigilia dell’Expo – ma non immaginavamo questa evoluzione. Le persone hanno già cambiato il loro modo di mangiare, si di­scute dell’alcol nel vino e del consumo di carne. Ricordate i dibattiti su farine e pasta? In pochissimi anni la prospettiva è cambiata radicalmente, ora il pane scuro non manca mai. Tra dieci anni penso che ci troveremo a commentare dati ancora molto interessanti, generati da un cambiamento sostanziale delle abitudini di consumo. I trend in questo senso sono chiari, basta leggere le analisi delle maggiori agenzie di consulenza».

C’è una crescente consapevolezza?
«Certo, non sono più i tempi in cui Totò e Peppino cercavano di vendere la Fontana di Trevi ai turisti americani. Anche le etichette oggi devono dare una comunicazione precisa e non ingannevole, a maggior ragione perché il cliente è più consapevole».

Per concludere?

«Il settore continua a crescere sia per la buona tenuta dei consumi interni sia per la forte dinamicità sul mercato internazionale. E l’export di qualità è una forza propulsiva determinante nel settore del food italiano».

Petrini: «Ma sui mercati la competitività non può più essere l’unico obiettivo»

«Stiamo entrando in una fase storica in cui si chiede di cambiare un paradigma esistenziale, cioè non avere più come unico riferimento la crescita del Pil, ma avere una dimensione in cui siano contemplate altre realtà». Concludendo la giornata di lavori all’Università di Pollenzo, Carlin Petrini ribadisce la contraddizione di questo periodo storico, nel quale l’emergenza climatica è sotto gli occhi di tutti «e la realtà che si va configurando non è una realtà positiva» citando ancora l’esempio degli agricoltori scesi in piazza e messi, dalle circostanze politiche, in contrapposizione con gli ambientalisti: un pretesto per il passo indietro dell’Unione europea sul territorio normativo. «Ma oggi siamo in una fase in cui rispetto a performance e competitività, la società civile ha invece bisogno di cooperazione, coesione e dialogo», ha sottolineato Petrini nel faccia a faccia finale con Sebastiano Barisoni di Radio24, moderatore del dibattito.
In precedenza dai relatori era però uscita la consueta considerazione sulle Pmi italiane che hanno grande qualità ma sono caratterizzate da dimensioni famigliari, penalizzate nel confronto con i grandi player internazionali. Qui è il nodo della questione. Sul tema si sono espressi Regina Corradini D’Arienzo, ceo di Simest (società del gruppo Cassa Deposito e Prestiti); Alessandro Santini, Head of Corporate & Investment Banking di Ceresio Investors; Andrea Stolfa, ceo di Omnia Technologies; Massimo Ambanelli, co-founder di Hifood e ceo di Csm Group Americas & Asia; Federico Vecchioni, ad di Bonifiche Ferraresi Spa e Maura Latini, presidente di Coop Italia.