«Chi era Matteotti? Il politico che tutti vorremmo votare»

Il giornalista, autore di “Piazzapulita”, è ospite di Fondazione Mirafiore per presentare il suo libro sulle “dieci vite” di un personaggio che pochi in realtà conoscono: «Ha tante piazze e vie intitolate a lui, ma servirebbe una serie tv per riproporre in maniera efficace la sua storia esemplare»

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L’ultima passeggiata estiva di Fon­dazione Mirafio­re (domani, ve­ner­dì, alle 18.30, in collaborazione con Attraverso Festival) ospita Vittorio Zincone e il suo libro “Matteotti, dieci vite” (Neri Pozza). Gli abbiamo chiesto di approfondire in anteprima per IDEA i dettagli di una testimonianza epocale come quella di Giacomo Matteotti che, al tempo stesso, è poco conosciuta: «Tutti sanno che è morto per mano fascista – ci ha confermato -, eppure questo dato viene messo non tanto in discussione, ma rimosso. C’è stata una polemica sulla targa del palazzo di Roma dove abitava Mat­teotti che alla fine è stata messa all’interno, per un presunto rischio di atti vandalici. Si sa molto della sua morte, il delitto, il movente, il discorso di Mus­solini del 3 gennaio che ne rivendica la responsabilità politica. Ma infilandomi nei testi dei discorsi, nell’epi­stolario, ho scoperto un personaggio la cui storia è davvero poco conosciuta».

Chi è, allora, Matteotti?
«Il politico che tutti noi vorremmo votare. Una persona tenace, curiosa, studiosa, radicale nelle sue battaglie, ma di un radicalismo giusto. Definisce il suo riformismo transigente nella forma, intransigente nella sostanza, smen­tendo quanti oggi si definiscono riformisti ma portano avanti un moderatismo sbiadito».

Perché “dieci vite”?
«Era un amministratore locale attento ai conti, contrario a ogni conflitto di interesse. Era un giurista raffinatissimo a cui propongono cattedre. Era un sindacalista feroce e integerrimo, che fa conquiste per il suo territorio, il Polesine, incredibili per quei tempi. Un uomo che sa tante lingue. Senza essere il rivoluzionario che percorre il Sud America in motocicletta e finisce a Cuba o quello che arriva in treno a Pietrogrado, co­munque viene sfidato a duello, aggredito più volte, rapito nel ’21. Insomma, ne combina di tutti i colori».

E non ha paura davanti alle minacce che riceve?
«A un certo punto pubblica una circolare in cui dice a tutti i suoi compagni di partito sul territorio nazionale: mi mandate i nomi di quelli che facevano i rivoluzionari nel 1920 e poi sono finiti nel partito fascista? Perché? Vuole evidenziare le bugie di Mussolini su conti economici, sicurezza, ordine. E su Il Popolo d’Italia scrivono “se poi Matteotti si ritrova con la testa spaccata non si deve la­mentare”. Diciamo una minaccia più che diretta. Ma questo avviene nel ’23-24. Lui nel marzo del ’21 dopo un discorso da parlamentare, a Castel Guglielmo per una riunione sindacale, viene accolto dai fascisti, portato nella sede dell’Agraria – sede dei proprietari terreni del Polesine -, fatto salire su un camion, picchiato, seviziato, abusato e scaricato di notte in un campo. Ed era un deputato del Regno. Gli viene detto “se torni nella tua provincia, ti ammazziamo”. E non ci sono ancora fascisti alla Ca­mera. Questo racconta quanto la natura violenta e codarda del fascismo fosse chiarissima già nel ’21, senza aspettare le leggi del ’25 e quelle razziali del ’38. E ci sono due anni, ’21 e ’22, in cui la violenza squadrista è stata tollerata dallo Stato liberale in una maniera vergognosa. C’è stata una resa».

Per quale motivo secondo lei?
«Da una parte è un vizio italiano delle classi dirigenti, che sono conservatrici. Poi quella classe dirigente lì aveva una paura. Giustificata forse dalla storia dell’Europa, ma non del socialismo italiano. Aveva pau­ra di una rivoluzione bolscevica nel ’19 e nel ’20. Sono anni di conquiste e occupazioni anche violente, la classe operaia italiana aveva una fascinazione per la cometa sovietica. Nel libro ci sono 3, 4 momenti cruciali in cui il re può fermare il fascismo e non lo fa. A parte la marcia su Roma, sono vari momenti. La paura della rivoluzione bolscevica, fa sì che tutti accettino la grande violenza fascista che promette ordine. Dopodiché, quella è una classe dirigente che aveva accettato le cannonate di Bava Beccaris sulla folla nel 1898».

Matteotti anticipatore, è giusto?
«C’è un discorso che lui fa nel ’22, alla Camera, in cui dice “quando un padrone fa una serrata, quando gli impiegati decidono di scioperare, voi immediatamente intervenite, ma se 500mila fanciulli chiedono sem­plicemente un po’ di istruzione, voi non fate niente, dato che non han­no un partito. Ep­pure questo Paese non ha nulla di più prezioso che le teste e le braccia di questi ragazzi”. Cioè sta già dicendo che si dovrebbe investire sull’istruzione. A un Congresso degli amministratori locali socialisti fa un altro discorso sulle scuole: “ma noi veramente vogliamo che la scuola debba solo piazzare lavoratori?”. Quanto è attuale oggi con l’alternanza scuola lavoro? Matteotti vuole “una scuola che sia anche poetica, che sia anche astrazione”. Cioè dice, “non dobbiamo solo formare masse fabbrica o campi, dobbiamo formare esseri uma­ni. Gli dobbiamo regalare un po’ di astrazione, un po’ di fantasia”. In tutte le presentazioni che io faccio, il 40% sono insegnanti. E rimangono a bocca aperta».

Qualcuno ha anche detto che Matteotti oggi sarebbe un “radical chic”.
«La definizione viene da Tom Wolfe e dall’attico di Manhattan dove i ricchi newyorkesi raccolgono soldi per le Black Panther, sono persone solidali ma non si sporcano le mani. Matteotti si sporca le mani, ma tanto. Lui è ricco, lo chiamano il socialista impellicciato, ma amatissimo dai braccianti e dal suo territorio. È molto radical, non chic».

Nell’ultimo periodo se ne sta parlando di più.
«È uno dei 5 personaggi italiani più monumentalizzati. Come per Vittorio Emanuele o Ca­vour, in tutte le città italiane c’è una via o piazza Matteotti. Ep­pure se ne sa poco. Il centenario ha aperto uno spiraglio. Sono usciti circa 25 libri su Matteotti quest’anno. Non vorrei che, co­me succede spesso in Italia dopo la grande ubriacatura, poi ci fosse una specie di rigetto».

Ma perché l’amnesia?
«Ha radici anche politiche. Era un socialdemocratico, tendenza che in Italia è stata sconfitta. Non ha avuto eredi forti, il primo a ripubblicare i suoi di­scorsi parlamentari fu Pertini nel ’70 da presidente della Camera. Poi c’è un lavoro egregio di Stefano Caretti, storico del socialismo, che pubblica l’epistolario con la moglie Ve­lia. E lo storico Mauro Canali che studia il delitto. Ma non sono lavori che entrano nell’immaginario collettivo. Persino su Di Vittorio c’è stata una serie su Rai1. Su Matteotti, no».

E adesso?
«Diciamo che il momento storico non è favorevolissimo. O forse sì. Perché l’antifascismo di Matteotti – se esistesse veramente una destra liberale – do­vrebbe essere un antifascismo amato da tutti, perché lui era di fatto anticomunista».

Che cosa ci ha lasciato?
«Un progetto politico, realizzato 24 anni prima dell’entrata in vigore della Costituzione. Che a sua volta è un progetto politico, da realizzare con la giustizia sociale e con i diritti civili. Gli stessi punti da cui partiva anche Matteotti. Avercene oggi uno così… ».

CHI È

È un autore del programma Piazzapulita (in onda su La7) e scrive per Sette, magazine del Corriere della Sera. Ha lavorato inoltre a Dodicesimo Round (Raidue), Pronto Chiambretti e Markette

COSA HA FATTO

Ha studiato Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma. Ha condotto Luci e ombre su History Channel. Ha collaborato con Adnkronos, Europeo, Capital, Il Giornale, Class

COSA FA

Domani, venerdì 12 luglio, partecipa a “Passeggiate letterarie nel bosco dei pensieri” a Serralunga (ore 18.30, ingresso gratuito su prenotazione) con il suo libro “Matteotti, dieci vite” edito da Neri Pozza dedicato all’uomo che sfidò apertamente Mussolini