Le poche anime che non lo conoscono sappiano che Moni Ovadia, Salomone all’anagrafe, è uno degli artisti e intellettuali più onesti e liberi che ci sia dato annoverare oggigiorno. Attore, cantante, scrittore, ebreo coltissimo, conoscitore di una decina di lingue, Ovadia è portatore sano di una cultura sommersa che ribolle come un fiume carsico sotto secoli di fraintendimenti e strumentalizzazioni. Una cultura che orienta tutti i suoi lavori nel segno di una spiritualità laica, di un’etica scomoda fatta anche di prese di posizione politicamente scorrette, mai compiacenti e sempre coraggiose. È di due anni fa la ripresa di uno spettacolo storico, “Oylem Goylem”, un condensato di humor ebraico dedicato a quella parte di cultura di cui lo Yiddish è la lingua e il Klezmer la musica, quello che chiama il “suono dell’esilio, la musica della dispersione”, ovvero la diaspora. Gli ebrei della diaspora, sterminati dai nazisti perché «Hitler odiava la loro ubiquità e insieme la fedeltà alla propria origine». All’Olocausto, nello specifico, Ovadia ha dedicato, nel ’95, un album e uno spettacolo imponente, che ha messo in campo dodici musicisti chiamati anche a evocare la massa di deportati, abiti dimessi e stella di David sul petto, mentre lui, narratore, dava voce alla storia e alle anime di due sposi promessi che mai poterono celebrare le nozze, rappresentando la coscienza e l’autocoscienza della catastrofe che è stata. “Dybbuk” il titolo, come gli spiriti sopravvissuti a morte violenta, interdetti all’Eden, che cercano un contrappasso in un corpo terreno.
Tra gli impegni in corso c’è, non unico, lo spettacolo insieme ad Aldo Cazzullo e Giovanna Famulari, “Il romanzo della Bibbia”, un progetto di Cazzullo che anticipa il volume omonimo, a breve in libreria, e che rinnova il sodalizio a tre dopo “Il duce delinquente”, opportuno occhio di bue sulle bravate del duce prima dell’alleanza con Hitler, dedicato a chi crede che fino ad allora le avesse azzeccate quasi tutte.
Di cosa tratta questo lavoro sulla Bibbia?
«È un’idea di Cazzullo per presentare il libro nella forma agile dello spettacolo concerto, con una musicista straordinaria come Giovanna Famulari. Si tratta di restituire la Bibbia a sé stessa, alla propria dimensione narrativa universale e di sottrarla ai fanatici e alle loro interpretazioni».
Percorriamone alcuni momenti.
«Il primo libro postula l’uguaglianza tra gli esseri umani, uomini e donne, che sono stati creati alla pari e simultaneamente».
Quindi questa storia della costola è falsa?
«Sì. Il testo originale ebraico dice chiaramente che la donna non è subordinata ma sta di fronte. E ogni essere umano è portatore, in ugual misura, dell’impronta divina, quindi di quella formula di pace e somiglianza».
Tra gli episodi che toccate c’è anche quello di Sodoma e Gomorra, secondo la Genesi le due città distrutte da Dio a causa dei comportamenti omosessuali dei loro abitanti.
«Non secondo la Genesi ma secondo i soliti chierici sessuofobi. Dio distrugge le città a causa della violenza nei confronti degli stranieri, che erano arcangeli travestiti. Lo straniero rispetto all’autoctono rappresenta la debolezza che chiede accoglienza. E l’ospitalità verso lo straniero è alla base dell’etica, anzi, l’ebraismo si fonda proprio sull’etica dello straniero. Nel Levitico viene detto ripetutamente “ricordati che fosti straniero in terra d’Egitto” e la Terra promessa è la terra in cui si vive da straniero tra stranieri».
Dunque siamo tutti stranieri?
«Sì perché Dio non ha venduto la terra ma l’ha donata perché sia abitata. La terra non è dell’uomo che è invece ‘gher’ ovvero straniero, residente, convertito. “Voi tutti davanti a me siete soltanto stranieri soggiornanti”. Questo, si dice, nel Levitico, e che la terra promessa va vissuta in santità e il primo dovere è l’accoglienza».
A questo punto non posso non chiederle de “Le Supplici” di Eschilo, che mise in scena al Teatro Greco di Siracusa nel 2015, in cui le supplici erano in realtà degli immigrati africani.
«Ma le supplici erano africane anche nella tragedia di Eschilo e già al tempo dei Greci l’ospitalità era sacra».
Qual è la patria di Moni Ovadia?
«Sono ebreo e vivo in Italia ma non ho patria e non ne voglio avere».
Non fa mistero del suo antisionismo.
«Mi dichiaro apertamente antisionista. Il sionismo è una forma di colonialismo anomala di un popolo che non c’entra nulla, che si trova a pagare un prezzo senza avere colpa».
Eppure se si prova a dichiararsi tali ci si sente dare dell’antisemita.
«Non se ne crucci, danno dell’antisemita anche a me, mi dicono che fomento l’antisemitismo. Un’immane sciocchezza. Antisemita significa essere contro gli ebrei in quanto tali, non essere in disaccordo con quello che fanno. Lo Stato di Israele ha violato la risoluzione dell’Onu espropriando le terre di Palestina con vessazioni continue, che nulla hanno a che vedere con l’autenticità dell’ebraismo».
La situazione a Gaza è atroce, annunciano una tregua e subito dopo bombardano un ospedale, una scuola, un campo di sfollati.
«È la loro strategia. Terrorizzare i palestinesi per farli scappare. I governi israeliani vogliono cancellare l’identità dei palestinesi come popolo, ridurli a paria, l’etnocidio ce l’hanno in mente da sempre. Io prendo a prestito l’espressione di Ilan Pappé, uno dei più autorevoli storici israeliani, e considero genocidio quello che sta succedendo adesso a Gaza. Stanno morendo di fame e di sete anziani donne, bambini, si prendono a calci viveri, medicine, incubatrici, maledetti!».
Qual è la soluzione?
«Non credo ai due popoli due stati ma a uno stato binazionale, democratico e laico, per entrambi».
Dal fiume al mare?
«Sarebbe semplice, uno stato per due nazioni. In Svizzera convivono pacificamente tre popoli, ma in Israele i sionisti si servono di mitologie devastanti, belle ma prive di verità e razionalità. Per esempio, non è esistito nessun tempio di Salomone. Ai sionisti chiedo perché non avete voluto definire i confini di stato? Per espandersi, no?».
Dopo “Le Supplici” dovrebbe pensare a mettere in scena “Le Troiane”.
«Per ora sto preparando uno spettacolo con un amico palestinese, musicista, e un artista della sabbia in cui reciterò le poesie di Mahmoud Darwish (uno dei maggiori poeti in lingua araba, nda) e leggerò un racconto tratto da “Le anime invincibili di Gaza” di Hanin A. Soufan, una raccolta di racconti di episodi reali nati da una resistenza disarmata e potente che porta una di loro a partorire in mezzo al massacro».
Lei ha molti amici palestinesi?
«Sì e sono un popolo dotato di grande coraggio e amore per la terra, un amore che non è nazionalistico, ma naturale, per la natura, la bellezza, gli ulivi».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco