«Harris e gli altri nel dopo Biden in Usa ancora tanti dubbi»

L’ex corrispondente Rai da Washington: «Occhi puntati sulla convention dei Dem a Chicago tra meno di un mese: la vice del presidente uscente non piace a molti ma ha basi solide, tutto dipenderà dalle scelte che faranno i governatori del “blue wall”, gli stati centrali con un peso decisivo»

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Lo aveva detto già in tempi non sospetti: «Siamo a un passo dall’abbandono». E puntualmente domenica scorsa Joe Biden si è ritirato dalla corsa contro Donald Trump, proprio come aveva previsto Antonio Di Bella. Che ci ha spiegato: «Sono stati giorni in cui tutto poteva cambiare da un momento all’altro, i democratici hanno fatto molta pressione dopo i numeri dei sondaggi in calo per il dibattito televisivo con Trump e poi con l’attentato. L’unica speranza sembrava quella di una convention a Chicago il 19 agosto rivitalizzata dall’energia di un candidato giovane in grado di opporre a Trump un senso di cambiamento». Scenario che torna più che mai attuale.

Biden ha indicato la sua vice Kamala Harris che però non piace a molti.
«La vicepresidente di origine gia­maicana e indiana. Non piace? Sarà difficile metterla in un angolo senza esporsi ad ac­cuse di razzismo o sessismo».

Con chi dovrà vedersela nel suo schieramento?
«Con altri candidati forti e bianchi del cosiddetto “blue wall”, gli stati del centro che sono decisivi. Si candidano anche alla vicepresidenza, so­no Jay Robert Pritzker governatore dell’Illinois, Anthony Steven Evers del Wisconsin e Josh Shapiro della Pennsyl­va­nia. La mia preferita invece è Gretchen Whitmer, la governatrice del Michigan. Ma c’è an­che Gavin Newsom che però ha l’handicap di rappresentare uno stato, la California, in cui ha avuto parecchi problemi».

Dietro all’attentato a Trump ci sono mille ipotesi.
«Sono per cultura contrario a ogni complottismo. Ma l’Ame­rica è culla dei complotti. Tutti i trumpiani dicono che Biden ha ordinato l’attentato. Da par­te democratica e liberale si so­stiene che l’attentato sia una sorta di false flag, un’operazione ordita da gruppi vicini a Trump. Sono fantasie buone per i libri e i film, la realtà è di un depresso ventenne con mil­le problemi e un facile accesso alle armi da guerra che in America sono molto diffuse».

E le zone d’ombra dei servizi di sicurezza?
«C’è stata una clamorosa negligenza degli apparati di sicurezza, con il ballo di responsabilità fra servizi nazionali federali e polizia locale. In base a un accordo, il tetto da cui ha sparato l’attentatore doveva essere controllato dalla polizia locale che invece, pur avendo fermato tre ore prima del comizio l’attentatore, lo ha lasciato andare. Ci sono chiaramente dei buchi, credo che salteranno molte teste. In particolare, la donna che comanda la sicurezza centrale, nominata da Bi­den».

E le immagini dell’agente del­la scorta che non riesce a mettere la pistola nella fondina?
«Viene spettacolarizzata quella scena che però rivela un dettaglio molto importante, secondo me. La direttrice del servizio di sicurezza aveva pubblicamente dichiarato che un suo obiettivo sarebbe stato quello di inserire più donne nella sicurezza in base a questa diversity policy che accomuna molte istituzioni democratiche. E che prevede il 30% di donne anche in un lavoro come la scorta, solitamente riservato agli uo­mini. Ora i repubblicani si scatenano, le destre ridicolizzano l’agente donna che ha solo messo in ritardo una pistola nella fondina. Sottolineano come la scorta per Trump nella Convention repubblicana fos­se composta da giganteschi agenti. C’è molto sessismo, c’è speculazione. Però va detto che l’esagerazione del­la diversity equality inclusion, che sovraintende mol­te organizzazioni a guida democratica e molte università, ha fatto danni. Ad esempio un uomo bianco, un italo-americano, non avrebbe speranze di essere accolto in una grande università americana se per lo stesso posto concorrono donne, gay o afroamericani. Che, se anche hanno punteggi inferiori ai suoi, lo scavalcano. Tutte queste persone scavalcate si ribellano e votano repubblicano invece che democratico, come hanno fatto per decenni».

Sullo sfondo c’è Netanyahu, rivale di Biden e amico di Trump, con la guerra a Gaza.
«Ai miei molti amici che manifestavano nelle università americane con rabbia e anche violenza contro le politiche di Biden, accusandolo di favorire lo sterminio di civili a Gaza, vado ripetendo che se queste contestazioni portassero alla vittoria di Trump, produrrebbero un aumento dell’appoggio militare americano a Netan­yahu. Trump ha detto apertamente che se venisse eletto di­rebbe al primo ministro israeliano di “finire il lavoro”. Altro che accordi, si potrebbe parlare di mano libera ai falchi israeliani e appoggio incondizionato militare al pugno di ferro della destra israeliana al governo».

Trump ha anche detto che risolverebbe in 24 ore il conflitto russo-ucraino.
«Salvo poi tranquillizzare al telefono un agitatissimo Zelen­sky. Ma il discorso di Vance, il suo vicepresidente candidato, è molto chiaro: non ce ne frega niente dell’Ucraina, non dobbiamo più spendere denaro americano per sostenere gli ucraini. L’idea è ottenere un cessate il fuoco che fotografi lo status quo, con Putin che mantiene i territori conquistati e l’Ucraina che rimane lì, dove sta. Questo se da una parte favorisce l’isolazionismo americano dall’altro, a mio parere, incoraggia la Russia e anche qualsiasi altra potenza voglia affermare con le armi i propri interessi. Penso a Taiwan dove la Cina, dopo un risultato positivo di Putin, potrebbe essere spinta a invadere l’isoletta».

Con Trump presidente il governo Meloni dovrà riposizionarsi?
«Sicuramente un’eventuale vittoria di Trump imbarazzerebbe la politica estera di Giorgia Meloni, che in questi mesi ha svolto un ottimo ruolo pragmatico degli interessi internazionali dell’Italia, menzionando un altro paese saldamente nel campo Nato, in dissonanza con alcuni suoi colleghi di raggruppamento europeo, come Or­ban. Il fatto che Trump possa vincere imporrebbe un cambiamento di passo che forse Meloni ha già cominciato a fare non votando Ursula von der Leyen per il parlamento europeo, però è chiaro che la politica estera italiana ha una sua continuità al di là dei governi. Io spero che in ogni caso continui a fare quello che ha fatto finora, mettendo l’Italia al fianco della Nato e dell’Europa contro la Russia, al di là delle sirene di una certa parte della destra europea».

Con il saggio “L’impero in bilico” lei racconta “L’America al bivio tra crisi e riscossa”. Cosa intende?
«Fin da piccolo sento dire che l’America è ormai agli sgoccioli. La superpotenza che ha dominato il mondo oggi è in difficoltà di fronte ad altre realtà, in particolare la Cina e i cosiddetti Bricks, che cercano di insediarla. Io non gioisco, come molti miei colleghi ed amici che preparano lo champagne. A parte che l’America non crolla perché l’economia è solida anche grazie alle politiche del tanto criticato Biden, ma un eventuale isolamento degli Stati Uniti porterebbe grandi problemi per l’Europa che si troverebbe da sola ad affrontare la Russia militarmente e la Cina economicamente. Sarebbe un mondo alla mercé degli autocrati, da Mo­sca a Pechino fino a Teheran. Dopodiché credo che anche una vittoria di Trump, tutta da verificare perché ci vogliono ancora molti mesi, non farebbe scomparire l’America ma la renderebbe più attenta ai suoi interessi – anche militarmente ma in maniera unilaterale -, contando meno sulla parola dei suoi alleati storici a cominciare dall’Eu­ropa».

 

CHI È

Ex corrispondente Rai dagli Stati Uniti, è stato per otto anni a capo del Tg3, direttore di Rai3 e anche direttore di Rai News 24. Ha guidato la task force contro fake news e disinformazione

COSA HA FATTO

Ha debuttato nei mesi scorsi sul canale Tv2000 con il programma “Di Bella sul 28”, un
approfondimento quotidiano di mezz’ora in fascia serale sul canale del vaticano

COSA FA

In questi giorni, parallelamente alle vicende presidenziali, è impegnato nella promozione del suo ultimo libro “L’impero in bilico – L’America al bivio tra crisi e riscossa” edito da Solferino, che descrive il momento storico degli Usa