«Tra vita e teatro è tutta questione di riti e rituali»

Paolo Tibaldi, direttore artistico del festival albese Profondo Umano anticipa i temi della nuova edizione che tornano nel film “Onde di Terra” e nella “Camminata di... Salute!”

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Rito e ritualità. Si­tuazioni ripetibili e ricorrenti in cui riconoscersi, percepire sensazioni, note, proteggersi. Questo il tema dell’edizione 2024 di Profondo Umano, festival culturale al­bese che a settembre aprirà la sua quarta edizione. Sin dalla prima edizione l’attore albese Paolo Tibaldi accompagna e affianca il “gruppo pensante” del Festival nelle vesti di direttore artistico. Innamo­rato della sua terra e della letteratura fenogliana, in questa edizione sarà impegnato nella presentazione del film “Onde di Terra” e nella “Camminata di… Salute!”. Nel primo caso il film per il cinema, prodotto da Siscom, sarà proiettato in anteprima assoluta il 31 agosto, alle 21, nella Cantina Terre del Ba­rolo (Castiglione Falletto). La camminata invece si svolgerà il 14 settembre, a partire dalle 16.30, a La Morra.

Parliamo del film, di come è nata l’idea per il Festival e della sua attività in generale. Lei fa sempre cose molto particolari…
«Sì, esco un po’ dall’immaginario dell’attore di prosa, dal­lo stereotipo. È stato il regista stesso, nonché amico, Andrea Icardi, a contattarmi. Inizial­mente il film doveva parlare di pallapugno e di territorio in senso stretto. Poi dialogando con la produzione il soggetto si è trasformato in questa versione più potente e dal respiro più ampio. Il mio personaggio, Remo, è un giornalista che si intrattiene con Fulvia (Erica Landolfi), una ragazza calabrese, per aiutare il suo amico Amedeo (Lucio Aimas­so). Siamo nel 1973, un pe­riodo storico dell’Italia ben definito e scandito da eventi come l’austerity, i matrimoni misti, lo spopolamento, l’industrializzazione. Remo aiu­ta l’amico analfabeta scrivendo lettere per Fulvia che, dopo molto tormento, deciderà di raggiungere la provincia di Cuneo e l’Alta Langa. Ciò che ha fatto il regista è stato chiamarmi per dirmi “ho scritto un soggetto con un personaggio che vorrei co­struire su di te”. E devo dire che in questo film interpreto un personaggio che mi somiglia moltissimo perché anche se non sono un giornalista, ho a che fare con la narrazione, con il “romanticismo”. Il film parla di un periodo storico e di una civiltà contadina co­mune a tutta italia, non solo al Piemonte o alle Langhe. Non è un documentario, ma un film romanzato in cui si sviluppano intrecci. Tuttavia ha risvolti universali».

Come si cala all’interno del Festival?

«I personaggi del film seguono riti profondamente umani e atavici, legati alla necessità assolutamente umana di mi­grare per trovare speranza, un po’ più di fortuna rispetto a quella che si avrebbe nella terra natia, fino alla ritualità dello scambiarsi lettere. C’è un intero capitolo nel film, intitolato “Lettere”, dedicato allo scambio epistolare. Poi c’è la ritualità del matrimonio, delle tradizioni e delle abitudini della civiltà contadina come il “cantè j’euv”(cantare le uova)».

Oggi si cantano ancora?

«Sì, anche se la festa ha perso il significato originario. Un tempo aveva lo scopo di chiedere le uova di cascina in cascina per poi fare una grande frittata da condividere. La finalità era di aggregazione e sopravvivenza sociale. Oggi mantiene l’aspetto aggregativo, diventando un’occasione di incontro sociale piuttosto che una risposta alla povertà del passato. D’altronde il rito ha sempre avuto una funzione di protezione per l’essere umano, offrendo un rifugio e un’identità condivisa, che si tratti di un rito personale o di gruppo. Muta, ma non può sparire. Il Festival cerca di declinarlo in tutte le sue for­me: cinema, conferenze, politica, sacralità, vita quotidiana, nascita e morte. La ritualità digitale. Il teatro stesso nasce come rito in un rapporto con la religione. Dalla tragedia greca, dove le rappresentazioni erano dedicate al dio Dioniso, ai tempi moderni, il teatro continua a essere una forma di narrazione rituale. Nonostante i temi e le storie cambino, la formula rimane la stessa: un pubblico che ascolta e attori che raccontano una storia».

Come avete scelto il tema di quest’anno?
«Durante uno degli ultimi eventi dell’anno scorso, un membro del gruppo ha lanciato l’idea che ha trovato subito consenso poiché ben argomentata e in linea con l’intento del Festival di esplorare aspetti profondamente uma­ni. Quindi, abbiamo cercato di distinguere il tema del rito dalla ritualità religiosa comunemente immaginata: il rito non è solo religioso, lo affrontiamo tutti i giorni a prescindere dalla fede. La religione stessa si avvale dei riti solo in un secondo momento, una volta riconosciuto il bisogno umano di ritualità».

Cosa succederà nella “Cam­minata di… Salute!”?

«L’iniziativa, organizzata in collaborazione con La Morra Eventi e Turismo, Profondo Umano e la libreria Paesi Tuoi permette di esplorare il territorio delle Langhe, patrimonio Unesco, e di scoprire la sua affascinante storia attraverso il vino, elemento chiave della ci­viltà contadina locale. L’evento evidenzia come il vino funzioni da collante so­ciale e scandisca momenti importanti della vita umana. Durante il percorso, i partecipanti conosceranno tradizioni, cultura e curiosità della zo­na. Ogni tappa prevede una nar­razione legata al vino, of­frendo un’esperienza suggestiva aperta sia agli esperti che agli appassionati. La camminata stessa diventa un rito e un’occasione per vi­vere un’espe­rienza memorabile, culminando in un aperitivo finale».

Ci saranno riferimenti alla sua rubrica Abitare il Piemontese?

«Sarà una narrazione diversa, ma spiegherò alcune parole piemontesi per raccontare storie legate al vino. Ad esempio, parlerò dell’etimologia dei nomi dei vini. Il Dol­cetto che non è dolce e l’Arneis che solo apparentemente potrebbe significare “arnese”, ma in realtà ha un’ altra etimologia. Racconterò anche storie legate alla cultura rurale piemontese».

Paolo, questa passione per la sua terra, il vino, la parola, come si è sviluppata?

«È un richiamo viscerale e inspiegabile, non qualcosa di calcolato o studiato meccanicamente. Da piccolo, ho passato molto tempo con i miei nonni, assorbendo la sensibilità di persone più anziane, avvicinandomi involontariamente a queste cose. La passione per la civiltà contadina e per la cultura piemontese, che possono essere Fenoglio, la lingua e la migrazione dei piemontesi in America, che sto affrontando in questi giorni è sempre stata forte. Pro­babilmente a novembre farò una tournee in piemontese in Argentina, dove vivono molti immigrati piemontesi. È davvero affascinante incontrare persone anziane che parlano piemontese con accento spagnolo, perché queste tematiche parlano della mia storia e della civiltà in cui sono cresciuto».

Articolo a cura di Erika Nicchiosini