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I misteri di Durov

Il russo fondatore di Telegram, che ha vissuto l’infanzia a Torino, al centro di un’inchiesta tra dubbi e teorie complottiste. L’accusa è di aver consentito reati attraverso la app di messaggistica

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La vicenda è ingarbugliata, coinvolge politica e servizi, alimenta dubbi e nutre complotti. Pavel Durov, fondatore di Telegram, arrestato il 24 agosto a Parigi e rilasciato dietro cauzione di 5 milioni di euro, è accusato di aver consentito sull’app di messaggistica reati come pedopornografia e traffico di droga. Gli innocentisti s’inalberano ricordando che la libertà penale è personale, i colpevolisti sostengono che Telegram non aderisce a programmi internazionali di sicurezza e che volutamente dichiara utenti inferiori al numero minimo che obbliga a inasprire i controlli, c’è chi rileva come nel tempo riservatezza e segretezza da protezioni siano diventate scudo per canali dediti ad attività illecite e chi spaccia verità posticce immaginando l’inchiesta come maschera per colpire legami con potenti scomodi. E qui emerge un presunto recente incontro con Putin, smentito dal Cremlino.
Vittima di manovre internazionali d’altissimo livello e del dilagare di un’app che fa gola a governatori e a business-men di tutto il mondo, o reale complice di crimini commessi attraverso la stessa? Finanziere finito in un gioco troppo grande o tessitore caduto dopo essersi sentito intoccabile? Dicono sia rimasto sorpreso dal fermo, collaborativo per un po’ ma poi arrogante, che abbia detto per schivare l’arresto d’avere un appuntamento con Macron – smentito, ma al presidente francese è davvero legato – eppoi svelato collaborazioni con i Servizi francesi. Si narra – ma storia e leggenda si fondono – abbia loro permesso, proprio attraverso la messaggistica, di sventare attentati gravissimi.
Capiremo presto di più, le indagini avanzano e lui non può lasciare la Francia, unica certezza il ritratto di un quarantenne rampante nato a San Pietroburgo e diventato, da semplice programmatore, uomo d’affari ricco e potente con le sue aziende, prima VKontakte, maggior rete social della Russia, e poi Telegram. In realtà, già in questo successo c’è un mistero perché il vero genio non è Pavel ma il fratello Nikolai, che a dieci anni finì in televisione per la sua capacità di risolvere problemi matematici intricatissimi. Mistero legato non alla partecipazione ai progetti, nota e mai smontata, ma alla figura personalmente alimentata dal carattere schivo che lo porta a lavorare dietro le quinte ed evitare qualsiasi forma di pubblicità.
Altro mistero l’ufficio fantasma di Telegram, app creata per altro come reazione alle pressioni russe su WKontakte: tremila metri quadri a Dubai dove però, si apprende in questi giorni d’inchiesta, nessuno ha mai visto movimento, né dipendenti né clienti, e anche il cuore del gruppo nel Golfo rientra in un profilo enigmatico che sovrappone viaggi tra Europa e Medio Oriente all’insegna del jet set e cittadinanze sovrapposte, non solo in Francia e negli Emirati, ma anche all’isola caraibica di Saint Kitts e Nevis. E il futuro è ancora più nebuloso, anche perché l’indagine rischia di tracciare un confine che va oltre Durov, stabilendo il principio per cui anche i colossi tecnologici e i loro manager possono essere chiamati a rispondere dei contenuti delle loro piattaforme. Curiosamente, benché documentata, c’è mistero anche nell’infanzia torinese di Durov: papà Valerij, noto filologo, coordinava i corsi dell’ Associazione Italia-Urss, dicono avesse insegnato all’Università di Torino ma né nei registri né nei ricordi c’è traccia.