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«Le parole importanti le troviamo anche su social e serie tv»

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Come ogni anno a Santo Stefano Bel­bo (e non solo, dopo le presentazioni tra Torino e Cuneo e gli eventi Off anche a Firenze) si riaccendono le luci del Festival e del Premio Pavese, passando da corsi e ricorsi storici: se nel primo caso l’evento si conclude lunedì 9 settembre, giorno in cui nacque – nel 1908 – il celebre scrittore, nel secondo si sperimenta un nuovo format in due serate, tra domenica 8 e venerdì 13, oltre a tanti ospiti. Tra questi Vera Gheno, che ha un aneddoto da raccontarci: «Vinsi il Premio Pavese più di vent’anni fa per la narrativa inedita, grazie a un racconto che mandò mio padre. Al tempo stavo trascorrendo un anno di studi in Australia, a Melbourne, e non ebbi la possibilità di andare a ritirare il premio. Mio papà conserva ancora la targa che gli fu spedita a casa. Ora arrivo, con un po’ di ritardo…». Stavolta, al Giardino dei Saperi (oggi, giovedì, alle 18.30) la sociolinguista presenterà il suo ultimo libro “Grammamanti. Immagi­na­re futuri con le parole” (Einaudi) assieme alla blogger Giulia Ciarrapica: «Parla della possibilità di avere una relazione più soddisfacente con la propria lingua o con le proprie lingue. È formato da quattro “storie d’amore”. Che sono: come ha conquistato la parola la specie umana? Come conquistiamo la parola noi da quando nasciamo a quando diventiamo esseri parlanti? Poi la relazione, a volte molto complessa, con il nostro patrimonio linguistico. E l’ultima parte è autobiografica perché parla di come sono diventata io stessa una “grammamante”, passando dalla storia dei miei genitori. Mia mamma è ungherese, mio papà è veneto, quindi c’è questa esperienza di scoperta reciproca che ha portato alla loro relazione e alla mia esistenza, in sostanza».

Torna in mente la famosa scena in cui Nanni Moretti urla «le parole sono importanti!».
«Lì c’è un elemento di pretesa raffinatezza linguistica che da una parte condivido, nel senso che ritengo occorra essere molto responsabili delle parole perché sono uno strumento potente, ma dall’altra vorrei ricordare che per una persona che studia la lingua come me, non esiste fenomeno che non sia degno di attenzione. Quando noi usiamo le parole in un certo modo, c’è sempre qualcosa di interessante da valutare. Quindi è vero, le parole sono importanti, ma non vado in giro a schiaffeggiare le persone se dicono … “location”. Anche se tendenzialmente cerco di non usare “location”».

Lei prende atto dell’evoluzione della società che ci porta ad accettare nuove parole?
«È più una rivendicazione, il cambiamento linguistico è segno di salute di una lingua. È quando una lingua smette di cambiare, adattandosi alle esigenze della sua comunità, che dobbiamo preoccuparci. Sa­rebbe un segnale inequivocabile del fatto che non è più lo strumento principe per comunicare».

Perché la tendenza a usare parole inglesi?
«A volte ci sono contesti nei quali l’inglese è la lingua con la quale si ci si intende più facilmente, altre volte sono fenomeni di sciatteria, di pedissequità culturale, per cui ci sono persone convinte che se tu dici la stessa cosa in inglese è più figo. Ma questo non è un problema dell’inglese o dell’italiano, è un problema di mentalità. Tullio De Mauro, che è stato un po’ il mio maestro e lo è ancora, diceva che il modo migliore per ga­rantire la salute della lingua italiana, è conoscere meglio le altre lingue. Di solito sono quelli che non conoscono tanto bene l’inglese ad attribuirgli un valore quasi sciamanico. La cosa importante da sapere è che se dici una stupidaggine rimane una stupidaggine. In inglese o in italiano».

La conoscenza delle parole, di tanti vocaboli, dipende dalla cultura?
«È più importante avere curiosità nei confronti del mondo che ci circonda, perché le parole le trovi nei videogiochi come sui social, nei film, nei libri, a teatro. Ciò a cui dovremmo puntare non è per forza leggere libri e basta, anche se è buona norma, ma fruire di contenuti culturali per quanto possibile variegati. Negli Stati Uniti si parla di dieta mediatica. I social potrebbero essere come il fast food: se ogni tanto si mangia un hamburger non succede nulla. Così come per i contenuti apparentemente meno blasonati, tipo i fumetti o la letteratura di consumo o le serie tv attraverso le quali si comprende meglio il presente».

Vale anche per i dialetti?
«Certo. Sempre De Mauro diceva che i dialetti rappresentano il legame con le nostre radici e che un albero può aprire le fronde solo se ha radici solide. La conoscenza linguistica non si forma per sostituzione, ma per aggiunta. Quindi non è che se tu hai un pezzo del tuo cervello “destinato” al dialetto, non hai spazio per altre lingue. Teoricamente possiamo conoscere tutte le lingue che ci servono in contemporanea».

Qual è il rapporto tra politica e parole, oggi?
«Penso che, rispetto al passato, ci sia molta cialtroneria in più. Ci si dimentica di quanto sarebbe importante fungere da esempio positivo per la comunità. Dopodiché ci sono dei movimenti di attenzione linguistica che sono legati ad esempio all’emersione delle minoranze. E penso che questo sia sacrosanto, cioè che le persone con disabilità ci dicano come dovremmo parlare di loro, che le persone trans ci dicano come dobbiamo parlare di loro, eccetera. Molti bollano questa cosa come “woke” senza la reale consapevolezza di cosa voglia dire woke. Ne ho parlato nell’ultima puntata del mio podcast».

In questo senso le parole possono minare una democrazia?
«Gramsci diceva che nel momento in cui si acutizza la discussione sulle parole, è sempre un indicatore del fatto che si sta muovendo qualcosa all’interno della società. Ogni discorso sulla lingua è qualcosa di profondamente democratico e qui siamo un po’ nel solco della tradizione iniziata con Don Milani, cioè della conquista della parola come strumento necessario per la conservazione della democrazia».

Tornando all’inglese, l’uso delle parole che distinguono il genere è più semplice che in italiano. Andremo verso quella direzione?
«Che ci sia un cambiamento strutturale non lo so, ma è interessante che in molte lingue anche molto diverse tra di loro si stiano facendo ragionamenti analoghi. Per trovare forme e modi che consentano di esprimere il genere in determinati contesti. Ad esempio in tutte quelle situazioni in cui l’italiano, per mancanza di altre soluzioni, usa il maschile sovraesteso. È un problema oppure no? Magari per un bambino, con un cervello in evoluzione, questo può creare dei bias, dei pregiudizi cognitivi».

CHI È

Sociolinguista e traduttrice dall’ungherese, ha collaborato per vent’anni con l’Accademia della Crusca. Dopo diciotto anni da contrattista in diversi atenei, da fine 2021 è ricercatrice a tempo determinato all’Università di Firenze e appare in tv come esperta di “parole”

COSA HA FATTO

È autrice di articoli scientifici e divulgativi e di 15 monografie. Per Einaudi ha pubblicato “Potere alle parole. Perché usarle meglio” (2019), “Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole” (2021) e “Grammamanti. Immaginare futuri con le parole” (2024)

COSA FA

Si occupa prevalentemente di comunicazione digitale, questioni di genere, diversità, equità e inclusione. Conduce, per «Il Post»,il podcast “Amare parole”. Proprio oggi (giovedì) sarà ospite del Festival Pavese a Santo Stefano Belbo

BaNNER
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