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«Nutrice di Fedra condannata? Io mi oppongo»

Gaia Aprea e il suo ruolo speciale in “Ippolito portatore di corona”, dove il pubblico diventa giuria popolare ed emette un verdetto: «Ma era in buona fede... Luca Ronconi? Genio. Devo a mio padre il legame con la musica»

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Tre anni e mezzo di reclusione ed esilio a vita. Questa la condanna inflitta a Gaia Aprea dal Tribunale speciale di Siracusa, per avere violato un segreto di Stato. A nulla è valsa l’arringa affidata a Diego De Silva: il tribunale ha deciso, la sentenza è inappellabile. Si fa per scherzare ma nemmeno poi tanto. «A Siracusa i processi sono reali, con tanto di accusa, difesa, Pubblico Ministero». Un modo davvero curioso di coinvolgere il pubblico: tu sei lì per assistere alle tragedie e ti ritrovi a far parte di una giuria popolare che deve giudicare se un personaggio è innocente o colpevole. In questo caso sotto processo c’è finita la nutrice di Fedra di “Ippolito portatore di corona”, la tragedia di Euripide diretta da Paul Curran che verrà riproposta l’11 e il 12 settembre al Teatro Romano di Verona. Un ruolo evidentemente controverso per il quale Gaia Aprea si è aggiudicata il premio Stampa Teatro 2024.

Come sarebbe, alla nutrice esilio e galera e a lei il premio della stampa?

«E non sono riusciti a farmi rinunciare al tacco quindici».

Infatti come nutrice direi che è abbastanza sexy.
«Il regista ha voluto spingere il pedale di una nutrice non proprio canonica che però, essendo più matura di Fedra, ancora inconsapevole della propria femminilità, la sprona a vivere la propria passione».

Un azzardo?
«Una scelta coraggiosa, al di là delle implicazioni di bene e male».

Per chi non lo sa diciamo che la nutrice estorce a Fedra la rivelazione del suo amore per Ippolito, di cui è matrigna, e lei invece di mantenere il segreto lo va a raccontare al diretto interessato, generando una serie di eventi infausti. Poteva farla franca?
«Sì, io mi oppongo alla sentenza perché è vero che ho svelato un segreto ma all’interno della famiglia».

E le pare poco?
«Guardi, un’altra opzione non c’era perché Fedra, fin dall’inizio, dice che vuole morire».

Allora tanto vale giocarsela tutta?

«Certo, la nutrice le dice: piuttosto che morire vivi il tuo amore. Ed è sorprendente che in lei non ci sia ombra di giudizio».

Vero è che il primo colpevole è stato Euripide.

«Euripide ha usato per questa nutrice parole incredibili. Lei nel Palazzo godeva di stima, di credibilità, esercitava una sorta di supervisione delle ombre e del disagio della famiglia».

Nessuna competizione con la regina?

«Una questione evidenziata anche nel processo. Più che competizione c’era nel Palazzo una vacanza di potere che lei ha occupato perché il Re era assente e la regina… ».

Era pazza. Ma davvero la nutrice era in buona fede?

«Io ne sono certa. L’unica bugia che ha detto riguardava i filtri magici d’amore».

E vada. Percorriamo le sue Antigoni, una figura con cui si è confrontata più volte.

«La prima a ventidue anni con Glauco Mauri in “Edipo a Colono” e soltanto un anno dopo con Theodoros Terzo­poulos, con cui ho fatto prima Ismene e poi Antigone, in una tournée arrivata fino in Cina e in Giappone. Creonte era un giovanissimo Fabrizio Gifuni».

Terzopoulos, un regista così diverso da certo accademismo nostrano.

«Un incontro fondamentale che ha impresso in modo indelebile un metodo per affrontare la tragedia greca in modo viscerale. Per lui la preparazione fisica è fondamentale per sbloccare le costrizioni ed eliminare le sovrastrutture. Il suo presupposto è che la tragedia sia una forma di comunicazione con Dioniso e tutti i personaggi sono in continuo scambio con il divino».

E con questo bagaglio come si è presentata da Luca Ronconi?

«Ronconi: un genio assoluto. La sua recitazione? Quanto di più distante dal “birignao” si possa immaginare. Non ha mai suggerito un’intonazione bi­slac­ca. La sua poetica si basa sulla convinzione che il pensiero al 90% non corrisponde alla parola ma all’inconscio e una stessa frase può contenere infinite sfumature e rinviare a significati diversi».

Mi fa un esempio?
«Se dico “mi dai un bicchiere d’acqua” posso intendere che voglio bere ma anche tante altre cose, per esempio che cerco un elisir d’amore. Il suo metodo consisteva nell’applicare l’intenzione all’intonazione e sapeva come smontare una frase all’interno della quale potevano esserci cinque intonazioni diverse».

Torniamo ad Antigone e in particolare alla lettura che ne fece Valeria Parrella in uno spettacolo diretto da Luca De Fusco, in cui si affrontava il tema delicatissimo dell’eutanasia.
«Un salto ulteriore. In quella riscrittura il divieto alla sepoltura diventava il divieto di scegliere liberamente se staccare la spina e la pena di Antigone, murata viva, era il nostro fine pena mai».

Non avete temuto di banalizzare una questione così complessa?
«Proprio perché è complessa è giusto affrontarla. Il dilemma tra legge dello Stato, rappresentata da Creonte, e legge del cuore è attualissimo e in questo testo non era affatto tirato per i capelli».

Invece quanto batte in Gaia il cuore di Giovanna d’Arco? La ricordo ad Anacapri nel monologo dai versi di Maria Luisa Spaziani.

«Giovanna mi accompagna da vent’anni e dopo quella prima versione, diretta da De Fusco, lo sto riproponendo in una nuova chiave, con il contributo di mio marito, Davide Pen­navaria, che è un grande conoscitore di musica. Una nuova versione in cui la lingua poetica della Spaziani, la forza onomatopeica delle parole che ne evocano il senso, dialoga perfettamente con la musica dei Pink Floyd».

Come figlia di un direttore d’orchestra, Bruno Aprea, non poteva che dare alla musica un ruolo fondamentale.

«Infatti per me la musica non è mai accompagnamento o tappeto sonoro, ma una vera e propria “collega”. Io vivo la voce come parte di una partitura di cui la musica è l’altra voce».

Un esperimento in questo senso risale al “Pierrot Lu­naire” di Schonberg diretto da Marco Angius, presentato al festival di Todi nel 2001.
«Mi piacerebbe tanto riprenderlo anche con una messa in scena. La dodecafonia è intonazione pura, la ricerca di una mediazione tra voce cantata e voce parlata e il progetto richiederebbe almeno un anno di studio».

Magari un anno di reclusione, come in pandemia, quando si è inventata “La maîtresse”, lo spettacolo tratto da “Memorie di una maîtresse americana” di Nell Kimball. Come l’è venuta l’idea?
«Ero chiusa in casa, come tutti, e non mi andava di pensare a cose drammatiche. La storia di questa donna poverissima na­ta nell’Illinois che è riuscita a creare un bordello che funzionasse come una qualsiasi azienda commerciale, mantenendo una dignità e dando dignità al proprio lavoro, mi è sembrato un bel messaggio. Lì c’erano regole da rispettare, le donne erano pulite, nutrite, e vivevano in condizioni ben diverse da quelle dei cosiddetti bordelli alveare. Per quegli anni era molto avanti».

Potremo rivederlo?
«Speriamo».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco