Home Articoli Rivista Idea «Sull’Himalaya con l’adrenalina da pronto soccorso»

«Sull’Himalaya con l’adrenalina da pronto soccorso»

Romeo Uries, infermiere al Dea di Verduno e speleologo, in una spedizione medica a 6.830 metri

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Mai farsi trovare impreparati. Avere sempre un piano A, uno B e uno C. Questo rappresenta un po’ la filosofia di Romeo Uries, infermiere al Dea (Dipartimento di Emer­genza urgenza e accettazione) dell’ospedale di Verduno, speleologo appartenente al Soccorso Alpino e Speleo­logico Piemontese, che parteciperà a una spedizione medica nazionale organizzata dal Dipartimento di Medicina di Montagna dell’Università di Padova sui ghiacci dell’Hima­la­ya.

Ci racconta la genesi di questo progetto?
«Il progetto, che si svolgerà dal 13 settembre all’11 ottobre, è organizzato dal Dipar­timento di Medicina di Mon­tagna dell’Università di Pa­dova e guidato dal dottor Giorgio Martini. L’obiettivo è studiare gli effetti dell’ipossia sul corpo umano, raccogliendo dati fondamentali per la scienza e per la preparazione degli alpinisti».

Quale sarà la vostra destinazione finale?
«Il Kedar Dome, una vetta di 6.830 metri, sarà il nostro laboratorio naturale per questa importante spedizione scientifica, patrocinata dal Diparti­men­to di Medicina di Monta­gna dell’Università di Padova. Mi sono unito a questo gruppo nel 2019 dopo aver frequentato un corso di specializzazione».

Su cosa si concentreranno le vostre indagini durante la spedizione?

«Raccoglieremo campioni bi­o­logici, come urine e sangue, oltre a effettuare biopsie mu­scolari. Misureremo anche parametri vitali come la frequenza cardiaca e la saturazione dell’ossigeno. Questi studi fanno parte di una ricerca più ampia che potrebbe avere applicazioni in diversi campi, dalle missioni spaziali alle terapie per ambienti estremi».

Come si sta avvicinando a questa avventura?

«Sono abbastanza tranquillo, non ho pressioni particolari. Mi concentro sulla preparazione, sia dei documenti sia dei materiali. Questa è una fase cruciale, perché i dettagli possono fare la differenza, una volta arrivati là. Quindi, penso a portare il giusto ma senza dimenticare nulla e questo non è facile. Per esempio, mi vengono tante do­mande: mi porto dei libri da leggere? Quanti? Butto dentro anche un libro di problemi di logica? Un’idea che mi è venuta per tenere la mente occupata».

Importante sarà la preparazione anche mentale.

«I giorni di attesa al campo base per completare acclimatamento, oppure quelli del brutto tempo devono essere riempiti. La mente deve restare occupata, è vero che l’attività di raccolta dati ci prenderà del tempo, ma servono anche un piano B e C. Un po’ come nel mio mestiere di in­fermiere di emergenza/urgenza».

Qual è il suo approccio?
«Devi sempre essere pronto a trovare soluzioni ad un problema. Nella mia esperienza da speleologo ho imparato che una volta che ti trovi da­vanti a un problema ti devi concentrare su come risolverlo e non sul perché ti sia capitato. Per questo c’è tempo do­po».

È più difficile lavorare al Pronto Soccorso o affrontare le spedizioni?
«A 52 anni ho imparato a gestire bene lo stress delle emergenze all’ospedale di Verduno. Tuttavia, non ho molta esperienza in alta quo­ta; ho raggiunto solo i 4.000 metri sulle Alpi, e ora dovrò arrivare a 6.800 metri. C’è un po’ di adrenalina e curiosità nel superare questi limiti e nell’affrontare un’esperienza nuova: mi piace l’idea di in­grandire sempre di più il proprio raggio di azione e oltrepassare il confine».

Lei è uno speleologo.
«La speleologia è il mio primo amore. Sono nato in Rom­a­nia, in una zona piena di grotte, e da bambino sognavo di esplorarle e trovare tesori nascosti. Questa curiosità mi ha accompagnato per tutta la vita. Le grotte negli anni sono diventate sempre più grandi».

In Italia ha iniziato a fare esperienze più complesse?

«Qui ho ampliato le mie esplorazioni. Ho partecipato a progetti importanti, come una spedizione nella grotta più profonda del mondo nel Caucaso. In Italia, ho esplorato anche a grandi profondità, fino a 1.000 metri».

Lei ha partecipato all’incredibile salvataggio di Mark Dic­key, nel 2023 in Turchia.
«Sì, lo speleologo americano è rimasto bloccato per 350 ore a una profondità di 1.040 metri all’interno della grotta Morca, situata nella provincia di Mersin. La nostra squadra è riuscita a raggiungerlo a questa profondità, fornendogli assistenza e stabilizzandolo. Suc­ces­­si­vamente, lo abbiamo ac­com­pagnato verso l’uscita fino a quota 680 metri, dove un altro gruppo ha preso il nostro posto per proseguire le operazioni di soccorso».

Il punto di connessione di molte sue attività è la passione per la montagna.
«Le grotte spesso si trovano in ambienti montani, quindi la montagna è diventata una parte di me. Nel tempo libero, mi piace esplorare le montagne del Cuneese. Per me, la montagna rappresenta crescita, formazione e un modo per ritrovare me stesso».

Fa parte del Soccorso Alpino e Speleologico Piemontese. Co­me gestisce questo ruolo?

«Non è facile trovare sanitari che lavorano tutti giorni nell’ambito dell’emergenza e che sono anche speleologi allo stesso tempo. Ma si tratta di un’attività che mi piace quindi non mi pesa affatto».

I suoi colleghi stanno facendo il tifo per lei?

«Sono stati incredibilmente comprensivi. Organizzare i turni senza di me non è facile, ma tutti hanno dimostrato grande supporto. Un grande grazie a loro e alla mia Asl per aver creduto in questo progetto, oltre a un ringraziamento ai coordinatori, al di­rettore e ai quadri dirigenti. Un ultimo ringraziamento va a Elena Foglia­to e allo sponsor che mi hanno dato in omaggio del materiale tecnico per affrontare la spedizione».