A volte la distanza aiuta. Il distanziamento. Fare qualche passo indietro per mettere meglio a fuoco l’obiettivo. Qualche passo o magari qualche chilometro. Christian La Rosa di chilometri ne ha fatti seicento. Da Saluzzo, sua città natale, a Foligno, dove ha scelto di vivere e mettere su casa. Lì, nel cuore dell’Umbria, questo attore poco più che quarantenne diplomato alla scuola del Teatro Stabile di Torino, fa capo tra una tournée e l’altra. E da lì ha potuto guardare alla sua Saluzzo con occhi liberi da compromissioni, soggezioni, fisiologica assuefazione a uno stato di fatto. Quello di chi preferisce rimuovere, per non ammettere che in una tranquilla cittadina della provincia di Cuneo, comodamente considerata zona franca rispetto a fenomeni di corruzione e violenza, possa succedere che un onesto primario dell’ospedale, padre di quattro figli, venga gambizzato sulla porta di casa. Chi ricorda questo episodio? Risale a quarant’anni fa: il dottor Amedeo Damiano rientra a casa, al termine di una comune giornata di lavoro, e appena varcato il portone del palazzo, viene aggredito da due uomini che aprono il fuoco. Un avvertimento, che però finisce in tragedia poiché i colpi di pistola, oltre a fratturargli il femore, lesionano anche il midollo spinale, paralizzandolo. Morirà pochi mesi dopo in una clinica emiliana, dopo un infausto tentativo di riabilitazione. Allora Christian aveva un anno soltanto ma adesso quel fatto è diventato argomento del suo primo monologo, “Senza motivo apparente”, riproposto al Ginesio Fest, il festival teatrale diretto da Leonardo Lidi, organizzato dal comune di San Ginesio, in Umbria, lo scorso agosto.
Partiamo dal titolo, “Senza motivo apparente”, perché?
«Perché è una storia senza mandante, mai arrivata a una conclusione, in cui non si è andati oltre i tre esecutori materiali. E quello che faceva da palo si è sempre dichiarato non colpevole».
Certo che è molto strano.
«Ci sono sospetti e anche cose passate come certezze, che però si scontrano con la verità giudiziaria perché non ci sono prove sufficienti. Damiano aveva scoperto e denunciato casi di malasanità protetti da una rete di utilitarismi, scambi, favori che poco hanno a che fare con la sanità pubblica».
E chi sa non parla o finge di non sapere, la mafia agisce anche in provincia di Cuneo?
«Credo sia una forma di autoconservazione, una mentalità provinciale per cui non si accetta che certe cose possano succedere in casa nostra. L’atteggiamento che ha del mafioso consiste nel farsi gli affari propri, in una vita di provincia fatta di tempi, ritmi, silenzi che non aiutano ad arrivare alla verità».
Ma a lei come è venuto in mente di farci un monologo?
«Recentemente, in occasione delle celebrazioni del 25 aprile, ci fu un convegno sulla figura di Amedeo Damiano e ne rimasi subito incuriosito. Siccome partecipava al convegno anche il figlio maggiore, mi sono avvicinato dicendo che mi sarebbe interessato approfondire. La famiglia vive il dolore del lutto in modo molto riservato ma dopo una normale diffidenza iniziale mi ha apertamente sostenuto permettendomi di consultare il materiale a loro disposizione. Quello, più il libro di Sergio Anelli, “Omicidio in danno del dottor A” (Sisifo edizioni, nda), molto tecnico e approfondito, mi sono stati molto utili».
C’è stata una ricaduta di qualche tipo sulla città?
«Questo non lo so ma credo si sia capito che anche la forma artistica è un mezzo possibile per raccontare i fatti e perché si continui a parlarne. Importante è che questa e altre storie vengano raccontate, non pensando di risolverle ma per continuare a porsi delle domande».
Infatti in questo caso particolare la storia è tutt’altro che risolta. È per questo che ha parlato di testo non compiuto?
«Anche, il testo cresce e decresce a seconda delle cose che succedono in scena. Io fin da subito non ho voluto assumere il punto di vista della vittima né di altri personaggi e la scelta di una forma più narrata che interpretata mi è servita per sorvolare la storia dall’alto. Credo ci sia bisogno di una distanza che avvicini, un paradosso ma funziona».
Perché proprio il monologo?
«Volevo sperimentarmi su un genere che non prevedesse altro e il monologo comporta una presa di posizione individuale e un’assunzione di responsabilità più ampia».
Il fatto che abbia inaugurato il Ginesio Fest, che ha dedicato la recente edizione alla solitudine dell’attore, è indicativo.
«La scelta di concentrarsi sul tema della solitudine nasce in seguito alla pandemia che ci ha lasciato strascichi anche psicologici complicando ulteriormente una situazione già complicata e il monologo per ovvie ragioni è stata la forma più gettonata. Però è vero che apre riflessioni più ampie sulla solitudine dell’attore e in questo festival si è declinata in tanti modi diversi».
Però lei non è avvezzo alla solitudine: ha sempre lavorato in compagnie numerose e con registi di diversa scuola e ispirazione. Ne cito alcuni: Mauro Avogadro, Carmelo Rifici, Antonio Latella e, naturalmente, Leonardo Lidi con cui ha un proficuo sodalizio nato alla scuola dello Stabile, dove eravate compagni di corso.
«L’avere avuto input diversi e spesso contraddittori la considero una grande ricchezza. Mi piace cercare nuove possibilità e mettermi in pericolo, non amo l’incasellamento. Grazie ad Avogadro che mi ha selezionato, sono stato ammesso alla scuola, Mauro mi ha insegnato a leggere tra le righe, a giocare di contrasto, a trovare l’umanità dentro le parole e oltre le parole, Rifici ha creduto in me quando nemmeno io ci credevo dandomi l’opportunità di entrare a gamba tesa in un lavoro importante subito dopo il diploma, con Latella ho capito quanto la forza creativa dell’attore sia parte integrante della drammaturgia».
E con Lidi è antica complicità: due battute sul suo Kostja, il personaggio che ha interpretato ne “Il gabbiano” di Cechov.
«È stato un viaggio collettivo fatto per rinunciare alla confort zone, per cercare di metterci in pericolo, individuare il nostro rischio per trovare anche piccole cose».
Quali ha trovato?
«La grande fiducia nella rete, e la consapevolezza della fragilità dell’attore nella quale può consistere lo spettacolo stesso».
Un piccolo spoiler ma nemmeno poi tanto: è stato scritturato per “Ritorno a casa” di Pinter con la regia di Massimo Popolizio, che debutterà nella corrente stagione: cosa si aspetta?
«Popolizio è un’istituzione, un talento straordinario, l’ho avuto come insegnante a scuola, vedremo. Ha il grande pregio di creare lavoro facendo spettacoli con compagnie numerose e lunghe tournée: un pensiero straordinario, creare lavoro».
C’è un ruolo che sogna di interpretare?
«Riccardo III. Mi affascina il gioco dei contrasti, la sua profonda umanità, nonostante quello che porta».
Profonda umanità?
«Sì, mi chiedo sempre quale sia la sua vera deformità».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco