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Il rapportone di Super Mario

Chiamano così l’analisi di Draghi sul ritardo dell’Unione Europea rispetto a Usa e Cina: per uscirne serve una reale federazione di Stati, non tante anime con fragili collegamenti

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Il rapportone. Lo chiamano così. Analizza le motivazioni della crescita limitata dell’Unione Europea rispetto agli Stati Uniti e il ritardo nello sviluppo tecnologico rispetto alla Cina, indica i rischi futuri e suggerisce le soluzioni idonee a scongiurarli. Autore Mario Draghi, economista di profilo altissimo e già capo del governo, eccellenza italiana che mette a disposizione esperienza e competenza, stimato e ascoltato oltreconfine: c’è chi ritiene sia al momento l’unico nostro leader di statura europea e chi, per questo, rimpiange la leggerezza con cui fu rimosso da Palazzo Chigi.
La sua non è solo un’analisi lucida, a tratti spietata: colpisce ancora di più il piano elaborato per superare i problemi. Da valutare in fretta perché il tempo stringe e la sensazione è che si profili un ultimatum: se non si cambia passo, parole dell’ex premier, andremo incontro a una lenta agonia. In sintesi Draghi sostiene che unica via per recuperare la competitività smarrita rispetto ad altri Paesi sia dare senso concreto a una federazione di Stati, almeno in alcuni settori, smettendo di muoversi come anime differenti con fragili punti di congiunzione, sì da fronteggiare a testa alta sfide dure e affascinanti come energia, difesa, crisi demografica e industria.
È il rapportone di un tecnico, ma Draghi ben conosce la politica. L’economia, invece, è il suo pane da sempre, abbracciata, dopo il Liceo classico, all’Università La Sapienza di Roma: tesi sul piano Werner, precursore della moneta unica, dottorato a Boston presso il Massachusetts Institute of Technology, professore d’economia all’Università di Firenze. Nel 1991 diventa direttore generale del tesoro: lo vuole Guido Carli ed è la svolta della carriera e della vita, poiché segna il passaggio dalla carriera accademica agli incarichi istituzionali. Diventa consigliere del ministro Goria e direttore esecutivo della Banca d’Italia – primo incarico esecutivo -, presidente della European Economic and Financial Committee e presidente del Working Party 3 dell’Ocse. Nel 2001 è presidente della Banca centrale europea. Illuminato e decisionista – «Costi quel che costi» il suo motto – preserva l’euro tra mille difficoltà, infine approda alla guida del governo nel 2021, gestendo le crisi economiche figlie del Covid e i riflessi dell’invasione russa in Ucraina.
L’incontro di questi giorni con Giorgia Meloni, che gli è succeduta, è stato anticipato da uno con Marina Berlusconi, da qualche parte interpretato come un messaggio politico, considerati i rapporti non proprio distesi, in questa fase, tra la premier e la famiglia Berlusconi e la presenza di Gianni Letta, braccio destro del Cavaliere. Dietrologie politiche narrano che ai vertici del governo serpeggi il timore d’un inciucio con il Pd che possa minare il Governo, specie dopo le dichiarazioni pubbliche di Tajani sui diritti civili, ed è chiaro che in un simile retroscena Draghi diventi un’ombra preoccupante. La politica, d’altro canto, lo permea, benché sia l’economia a farne un riferimento europeo capace di scrivere, con occhio attento, un manifesto geopolitico che suona come un allarme e chiedere all’Ue un cambiamento radicale dopo anni i cui s’è guardato poco all’esterno e troppo all’interno. Fino a perdere potere e passo rispetto ad altre potenze straniere.