Il lavoro come rito, inserito nel mito della carriera che, perlomeno nella sua versione che gli anni 2000 hanno ereditato dal secolo scorso, sembra sgretolarsi sempre di più. «Anche nella sfera professionale, andiamo verso un futuro di emancipazione. Non esistono più le grandi categorie: chi l’ha detto che un operaio non possa reinventarsi aprendo un chiringuito o, per un periodo, smettendo di lavorare?». Oggi, giovedì, il filosofo del lavoro Alessandro Donadio è ospite del festival culturale “Profondo Umano”, ad Alba. L’edizione di quest’anno, organizzata dall’associazione corale “Intonando”, è dedicata al tema del rito. Fondatore di LogosLab, docente all’Università di Tor Vergata (Roma) e saggista, Donadio ne parla in una lectio che inizia alle 21, nella sala conferenze del Palazzo Banca d’Alba, in via Cavour. «Il lavoro ha implicazioni in tutti i lati e gli aspetti delle nostre esistenze – introduce -. Nelle nostre società, tutti ne facciamo esperienza».
In che senso può essere inteso come rito?
«Mettiamo la sveglia, tutte le mattine ci alziamo e facciamo il gesto rituale di muoverci per andare al lavoro. O meglio, ormai spesso non dobbiamo neanche più muoverci, visto che possiamo fare tutto da qualsiasi luogo. Ma dobbiamo attivarci, metterci in azione, con una serie di attività che, a un certo punto dell’apprendimento lavorativo, diventano ripetitive. Ed ecco il rito: lavoriamo e continuiamo a lavorare».
Quindi il lavoro è un’eterna ripetizione, fino al giorno della pensione e del riposo?
«Da un certo punto di vista, può essere inteso così. C’è una domanda che, quando qualcuno ci pensa, molte volte resta senza risposta: perché lavoriamo e non facciamo altro per vivere? Ci sono alternative al lavoro così come lo pensiamo oggi? In linea teorica sì, ma non sempre le si trovano. Il rito non ha senso se non implica una dimensione di comunità. E quello del lavoro, come tutti i riti, è pienamente immerso nella sua comunità».
Con comunità intende i clienti e i destinatari del proprio lavoro? O, in generale, la società?
«Tutto quel sistema di relazioni che ha a che vedere con lo scopo dell’azienda o del lavoro che eseguiamo. Faccio un esempio: un’impresa che produce oggetti, può contare su un gruppo di lavori organizzati; diversi fornitori con cui ha rapporti continuativi, reiterati e, di fatto, rituali; i clienti; chi non usufruisce dei suoi prodotti ma la conosce e la osserva. Ecco qui la comunità dell’azienda, direttamente coinvolta dal rito del lavoro di chi permette all’impresa di essere quello che è».
Molti dicono: «Mi piace il mio mestiere perché faccio tutti i giorni qualcosa di diverso». Sono rituali anche quei lavori che non sono ripetitivi?
«Fare cose declinate in modo diverso non significa fare cose diverse in modo assoluto. Si possono avere delle esperienze sensibilmente diverse tutti i giorni. Ma il lavoro, in fin dei conti, è sempre lo stesso. Anche nella nostra società digitalizzata e informatica, esistono ancora molte forme di lavoro all’apparenza più arcaiche, con pochissima variabilità».
La ritualità rende il lavoro più piacevole per i lavoratori?
«Comunica alla comunità che sto facendo il mio presunto dovere. Se questo sia piacevole, dipende dai singoli».
Il guadagno è l’obiettivo del rito del lavoro o un mezzo perché esso proceda?
«Da una parte, la componente retributiva del lavoro è la sua dimensione di fattibilità: mi permette di stare bene al mondo, nella vita di tutti i giorni. Ogni rito, poi, fa riferimento a un mito. E il mito della nostra società affida al denaro una valenza importantissima: non ci offre solo la capacità e la possibilità di sostenerci, ma dice al mondo chi siamo».
Esiste pure un mito del lavoro?
«Sì. Le nuove generazioni spingono per una liberazione della mitologia classica. È quella che vede il lavoro come dovere, elogia la logica del sacrificio, mette in relazione diretta i guadagni economici con il successo. Oggi il mito della carriera è in frantumi. Le nuove generazioni sono più interessate a stare bene, conoscere persone, fare la loro parte dal punto di vista sociale».
Per quale ragione?
«Difficile dirlo. Io sono in grado solo di avanzare un’ipotesi, pensando ai figli di genitori che hanno vissuto nel mito del lavoro del secolo scorso, sono benestanti, hanno fatto carriera. Questi, li hanno cresciuti bene i loro figli? Spesso, a sentire i ragazzi, no. Magari gli hanno dato molte risorse economiche, ma hanno valorizzato poco le relazioni umane e hanno avuto poca attenzione alle questioni familiari. Ecco la conseguenza: potrebbero essere meglio meno soldi, ma più presenza e affetto».
Tanti dati dimostrano che le donne, a parità di mansioni, sono pagate meno degli uomini. Il rito del lavoro è sessista?
«Sostiene, spesso, il mito del maschio caucasico al potere e delle donne più dedite alla cura. Anche questo mito si sta sgretolando. Non ha mai avuto bisogno di esistere».
Come immagina il futuro del mondo del lavoro?
«Gli storici dicono di non avere la sfera di cristallo per immaginare il futuro. Vale lo stesso per noi filosofi. Noto, però, una tendenza all’emancipazione che mi sembra difficilmente arrestabile. Con il mito del lavoro in crisi, molti si focalizzano sull’impatto sociale delle loro attività, a cui viene dato sempre più peso».
E l’intelligenza artificiale?
Per ora, non ne parlo. Sto studiando la questione, mi tengo informato. Ma è ancora troppo caotica per fornirne delle spiegazioni o delle analisi».
Per concludere: se dovesse raccontarci il rito del lavoro del filosofo, come ce lo spiegherebbe?
«Per me è il rito della domanda. Quando scrivo un saggio, tengo una consulenza, intervengo in un evento pubblico, mi concentro sulle domande. Sono loro, più che le risposte, a creare nuove consapevolezze. Anche all’intelligenza artificiale dobbiamo sapere cosa chiedere. Lei è attrezzata per produrre risposte, che in genere sembrano essere corrette. Le domande, però, dobbiamo farle noi».
Articolo a cura di Luca Ronco