«Mi scuso per il disordine e mi raccomando, faccia attenzione a non inciampare». Incontro Roberto De Siena nel suo atelier privatissimo, allestito in una stanza di casa, a Caraglio, dove vive da cinque anni. Dieci metri quadri o poco più di armonioso disordine, tra scatole, tele, attrezzi, matite e pennelli, tra cui mi apro un varco in punta di piedi (e fuor di metafora) per raggiungere la sua postazione di lavoro. Alle pareti, rigorosamente bianche, sono appese alcune tele dai titoli curiosi e accattivanti. “Eggs”, come uova, “Ruggine”, “Detruncatio” ovvero taglio, potatura. Un albero troncato o, meglio, un tronco reciso guardato dall’alto. Questa tela fa parte delle venticinque esposte a Fossano fino a domenica 29 settembre, nella chiesa di San Giovanni in Borgo Vecchio, allestimento che sta registrando un gran bel consenso e una regolare affluenza. Opere astratte di fortissimo impatto ma anche undici disegni e carboncini, tributi a un figurativo che sempre garantisce. Perché a volte la domanda sorge spontanea: dietro questi fantasiosi arabeschi c’è davvero una mano che sa disegnare?
De Siena, le è mai capitato che le dicessero “questo quadro lo potevo fare anch’io”?
«Sì ed è il motivo per cui adesso alle mostre porto anche i disegni. Una volta un signore mi disse proprio così, tu butti lì un po’ di colore e poi se hai fortuna il quadro viene bello».
Invece?
«Io so disegnare, disegno da quando sono bambino, ma la mia ricerca è un’altra».
Parliamone.
«I quadri astratti, le città immaginarie, per esempio, hanno un percorso di giorni prima di manifestarsi sulla tela. C’è qualcosa che capto, emozioni, sensazioni sulle quali costruisco delle storie e su queste storie comincio a macinare qualcosa che però non è ancora a livello di immagine. Finché non avviene il miracolo notturno».
Cioè?
«Nel sogno queste cose macinate diventano flash di colori e di forme. Visioni che mi restano impresse nella mente. A quel punto devo avere le tele pronte e vado avanti, una dopo l’altra, finché non ho esaurito l’idea».
Immagino sia questo il motivo per cui dipinge a cicli. Quanto tempo impiega per realizzare ogni singola opera?
«Il tempo è relativo: posso anche fare due quadri in un giorno o uno soltanto in una settimana. Certo ci sono tempi tecnici imposti perché lavoro a fresco e il colore non si deve seccare».
E dipinge a strati, come Leonardo.
«Dipingere a strati per me è una necessità. Mentre dipingo non vedo precisamente cosa sto dipingendo. Io sono presbite e lavoro senza occhiali dando vita a un pensiero che ho già dentro. Guardo i quadri soltanto quando sono finiti e mi rendo conto delle profondità che la pittura a strati rende possibili».
Sta cercando di farmi credere che dipinge in uno stato di trans?
«No, ma quando il quadro è finito io fatico a tornare alla normalità, a smaltire questa cosa che lei ha chiamato trans e a occuparmi di cose quotidiane».
Il mistero è nella complessità delle linee, nei vortici, negli arabeschi, nei meccanismi perfetti che paiono orologi.
«Gli orologi. Da bambino ho scoperto dentro un orologio rotto il meccanismo, appunto, e per tre giorni non ho smesso di guardarlo. Erano la mia mania, insieme ai treni a vapore. Sono affascinato da qualunque meccanismo riveli una coordinazione perfetta di parti».
Anche dalla natura?
«Certo. Nella natura ci sono mondi che non vediamo. Altri meccanismi, altri intrecci: radici, alberi, rami che si intersecano in modo mai banale e la corteccia, davanti a una corteccia sei davanti a un mondo che ha una vita complessa, invisibile senza microscopio, e la pittura prova a portarla fuori».
Un mondo in filigrana finito sulla tela. Accade qualcosa di simile con i disegni? Ha in repertorio volti, profili, occhi.
«I disegni sono frutto di un pensiero ragionato e per me un divertimento. Alle mostre li porto anche perché i paesaggini si vendono meglio. La gente vuole capire quello che vede».
E perché non prova a spiegarglielo anche quando guardano le opere astratte?
«Perché non è possibile spiegare le emozioni. A qualcuno inquietano e io sono contento così perché vuol dire che hanno smosso qualcosa».
Anche il figurativo smuove qualcosa, i disegni degli occhi, per esempio.
«L’occhio ha una sua vita. Guardando gli occhi ne vedo l’umidità e con la polvere nera di carbone provo a rendere la trasparenza bagnata».
Frequenta mostre e musei?
«Sì, non tanto i contemporanei ma il Novecento. Emilio Vedova mi ha ispirato per la sua libertà nel tratto e nell’immersione della materia. All’inizio ero molto materico, i quadri avevano lo spessore anche di due centimetri. Ora invece tendo a togliere e quando c’è troppo colore lo gratto via».
Quali sono i suoi colori?
«Il blu di Prussia mi calma. E amo i rossi e i gialli indiani, i colori delle spezie. È la voglia di un certo colore che mi ispira un ciclo. D’inverno però la voglia di colore sparisce e lavoro col carboncino. Una specie di letargo ottico».
Ha vinto premi ed esposto anche molto all’estero: a Washington, Thomas Gallery, nel 2005 vinse il primo premio su tremila partecipanti, ha esposto a New York, Miami, Boston. È molto diversa la situazione laggiù?
«La Thomas Gallery ha fatto girare bene le opere. A Boston ho esposto alla Liquid Art House, una galleria interessante dove lo spazio espositivo è abbinato alla cucina. In America molte gallerie sono strutturate così: mentre guardi una mostra puoi assaggiare piatti a tema»
Chi è l’acquirente ideale?
«Guardi, io commercialmente sono fantozziano. Se vedo che una persona è innamorata di un quadro, come faccio a monetizzare la sua felicità?».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco