Julio Velasco e Modena: un amore forte, indissolubile, che dura da più di 30 anni. Nel 1990 fu il sindaco Alfonsina Rinaldi a donargli le chiavi della città: «per gli indiscussi meriti che ha saputo dimostrare nello sport da allenatore prima della squadra di pallavolo della città e poi della nazionale italiana».
Il 13 settembre è tornato a ricevere l’abbraccio e la standing ovation della sua gente, all’interno del Festival Filosofia, l’appuntamento culturale più importante dell’anno per la zona, che si snoda anche a Sassuolo e Carpi. E lo ha fatto, dopo la vittoria dell’oro con la nazionale femminile di pallavolo durante le Olimpiadi a Parigi, con un intervento sul rapporto tra psiche (tema della rassegna) e sport.
Poco prima era stato accolto in Municipio e omaggiato, insieme al suo secondo Massimo Barbolini. Ha raccontato, mettendo insieme i suoi appunti, la sua storia, la sua esperienza, le sue vittorie, un mondo in divenire in cui non ci sono ricette per vincere, ma modi per cercare di capire l’altro, per motivarlo e per fare uscire le proprie potenzialità. «Ci sono artisti, come Vasco Rossi, o squadre, come quella femminile di pallavolo che arrivano, la gente dice che hanno un’anima. E allora si entra nel campo delle emozioni, ma la psiche è fatta di tanti elementi: intelletto, psicologia, vissuto, contesto. Nello sport e nella vita l’errore più comune è quello di avere la risposta immediata, pronta, la spiegazione a tutto. La psiche è complessa e bisogna ricordarsi che entra in ballo il rapporto con l’altro».
Il discorso di Velasco è rivolto non solo agli allenatori, ma, in generale, a tutti quelli che hanno una responsabilità nell’educazione, genitori e maestri compresi. «Ogni persona è diversa, ogni epoca è differente, non ha senso dire “ai miei tempi”. Non dimentichiamoci che la nostra memoria è selettiva, ci ricordiamo solo quello che ci ha colpito o ci conviene, e spesso, con quella memoria selettiva, giudichiamo i giovani. E non può esserci dibattito, loro non hanno la possibilità di entrare nel tunnel del tempo per capire come vivevamo noi, e, quindi si creano un conflitto e una chiusura».
La bellissima piazza Grande, patrimonio Unesco, è gremita, ma muta, illuminata dalla sera e da qualche sporadico cellulare che fotografa, mentre il “modenese” Velasco prosegue nella sua analisi, ricca di esempi, colorita, con un incedere italiano-spagnoleggiante che regala suggestioni, risate e un ritmo vorticoso e ipnotico.
La tappa successiva è quella dei luoghi comuni sui giovani. «Non parlano, ma chi l’ha detto? Siamo noi che non capiamo il loro chattare, il loro messaggiare o non ci sforziamo abbastanza. Ai nostri tempi non usavamo anche noi i bigliettini per dire a una ragazza che ci piaceva? Il punto è forse che prima di affermare, dobbiamo domandare e ascoltare. Ma la domanda deve essere autentica e aperta, non presupporre una risposta, altrimenti il giovane sta in silenzio per paura del giudizio».
Le parole si fanno sempre più concrete e immersive. «Ci sono momenti nella vita in cui non basta dimostrare di aver capito, ma comprendere è necessario per fare, per compiere un’azione. Non basta studiare o avere buoni appunti. In questo processo diventa fondamentale l’errore, come processo di apprendimento. E chi insegna deve capire che non è più il protagonista, ma deve imparare a far fare all’altro».
Qui il manager-allenatore va nello specifico in un discorso che è tecnico e psicologico allo stesso tempo: «Come entriamo nella testa dell’altro, come riusciamo a rompere le sue paure e le sue insicurezze? Io cerco di avvicinare la mia testa, il mio modo di pensare al suo, in modo che si crei una connessione che ci permetta di muoverci insieme. Alle mie giocatrici ho detto che le volevo autonome e autorevoli. Perché, quando si inizia a giocare, loro sono sole, non c’è allenatore che tenga».
Il percorso non è lineare, né facile ed è soprattutto contraddittorio, come spiega ancora Velasco: «Accanto al valorizzare la capacità di esprimersi, bisogna sviluppare degli automatismi, delle abitudini in cui il cervello riproduca certi comportamenti anche faticosi. E in questo caso dobbiamo essere un po’ unidirezionali e autoritari».
L’ultima parte della lectio scivola tra excursus storici, esempi concreti di quotidianità, partendo dal bambino, dai suoi modi di apprendimento, dalla formazione dei genitori e dalle fasi importanti dell’educazione per poi entrare nel tema dell’errore. «Bisogna ricordarsi che è un momento importante nell’apprendimento e non deve essere visto come una manifestazione di incapacità o come un blocco che non ti permette di agire per la paura di sbagliare. Gli uomini, generalmente, sono più spavaldi, sanno rischiare anche più volte, ma, forse, per raggiungere il risultato, sbagliano troppo. Le donne, invece, pur sapendo le cose, a volte non si buttano per paura. Bisogna stimolarle e far capire loro che un errore è solo un errore. E che non bisogna dedicarci troppo tempo: il gioco e la vita vanno velocissimi e ci obbligano a pensare già alla palla successiva».
Articolo a cura di Daniele Vaira