Ha il volto di una maschera tragica, un po’ Laocoonte e un po’ anche Totò, a seconda dei ruoli e forse anche degli umori. Massimo Venturiello sulla scena è un segno forte, fortissimo, eppure incide lo spazio senza violenza, semplicemente con la sua verve, la buona stazza che gli è data, e una connaturata confidenza con il palcoscenico. Si capisce che lì ci sguazza, libero da artifici e dettami accademici. Al suo attivo ha un repertorio degno di un prim’attore che non si è fatto mancare nulla. Dai tragici greci a Shakespeare, da Aristofane a Tennessee Williams, da Machiavelli a Ibsen, da Mamet a Goethe, da Brecht a Petrolini. Ettore Petrolini: l’autore di “Chicchignola”, la commedia che Venturiello sta riproponendo in questa corrente stagione. Colui che «ha saputo sentire Brecht, senza conoscerlo».
Addirittura Brecht? Petrolini è noto ai più come esponente di un teatro minore, varietà, avanspettacolo.
«Invece è stato un anticipatore. Con lo slittamento dentro e fuori il personaggio, ha anticipato lo straniamento brechtiano. E questo, in un’epoca in cui la quarta parete era sigillata, era molto moderno. Ma il suo straniamento era di pancia, frutto di una necessità interiore che quindi raccoglieva un consenso trasversale, sia del popolino sia degli intellettuali. Sono convinto che se non fosse morto a cinquant’anni la sua drammaturgia si sarebbe fatta sempre più solida. Aveva imboccato una strada interessante, molto contemporanea. Non certo soltanto la strada dei giochi di parole. Ci sono attori che hanno costruito una carriera su Petrolini».
A proposito di giochi di parole, non può negare che ci siano delle battute che oggi suonano un po’ datate: “il matrimonio è la tombola dell’amore, uno vince e gli altri ottantanove rimangono fregati”: insomma…
«Una battuta storica, ma c’è dell’altro: per esempio “è una grande soddisfazione essere considerati stupidi dagli imbecilli”».
Pensi che la condivido. Mi piace molto anche “uno non dovrebbe mai essere contento dell’opera sua”: lei è contento?
«Io penso che si possa essere contenti ma riservandosi sempre un margine di possibilità per fare meglio. Di questo spettacolo sono contento all’80%».
Percentuali a parte, lo spettacolo ha registrato grandi favori e schiera in campo una compagnia molto affiatata composta da Maria Letizia Gorga, Carlotta Proietti, Claudia Portale e Franco Mannella. Oltre a lei, naturalmente, che ha curato anche riduzione e regia.
«La riduzione è fedelissima all’originale. Io mi sono limitato ad accorpare i ruoli minori in un unico ruolo sia per ovvie ragioni economiche sia, soprattutto, per dare più peso al ruolo stesso. E poi ho inserito delle canzoni».
Ecco, le canzoni. Da quando fa coppia con Tosca la musica ha spesso un ruolo centrale nei suoi lavori, penso a “Tango”, “La strada”, “Il borghese gentiluomo”, “Il grande dittatore” e di nuovo al Petrolini di “Gastone” che avete messo in scena un po’ di anni fa.
«E che riprenderemo nella stagione 24/25. Ci siamo conosciuti facendo “L’opera da tre soldi” e lei ha sicuramente rafforzato il mio rapporto con la musica, ma la passione l’ho sempre avuta. Nella nostra diversità ci assomigliamo molto e difficilmente mi piace una cosa che lei detesta e viceversa. La musica e le canzoni negli spettacoli di prosa servono anche per passare dal micro al macrocosmo, per andare oltre la quotidianità. Quello che al cinema si realizza più facilmente con il primo piano».
Io la ricordo in uno spettacolo che si intitolava “La musica in fondo al mare” in cui lei e Marina Confalone, anche autrice, interpretavate due sordi.
«Spettacolo diretto da Giampiero Solari nato come esperimento, che poteva diventare una grande palla intellettuale invece è divenuto popolarissimo. Il pubblico entrava nel gioco della nostra sordità e prevedeva le scene ad alta voce. Il corpo quando viene in sostegno è musica e può raccontare moltissimo».
Immagino che farà un grande lavoro sul corpo: penso alla scena di “Chicchignola” a inizio secondo atto in cui si muove come un perfetto Petrolini di repertorio.
«Nessun lavoro sul corpo. Non studio a casa ma amo le prove perché tutto accade lì, insieme agli altri. Non ho nessuna certezza ma sento che la pancia viene prima della testa, che è fondamentale ma a volte ingabbia e il rischio è il manierismo, il cliché. Ci sono attori che credono molto nella costruzione del personaggio, io credo di più nella trasmissione emotiva».
Può fare un esempio concreto?
«Mi viene in mente uno spettacolo fatto tanti anni fa con Valeria Moriconi e la regia di Gabriele Vacis, “La rosa tatuata” di Tennessee Williams. Eravamo in macchina verso la duecentesima replica. Valeria mi dice che c’è un momento in cui sembra che mi manchi l’ossatura. Bene, non sono più riuscito a fare quella scena perché improvvisamente mi sono guardato dal di fuori».
Interessante. Quindi nessun complimento ai giovani attori. Da qualche anno codirige insieme a Tosca l’Officina Pasolini, una scuola sostenuta dalla Comunità Europea. Come insegnante come si pone?
«Insegnare secondo me è trasmissione di qualcosa che è in nostro potere grazie all’esperienza, alla vita. Trasmissione anche involontaria. Non credo nei metodi, nelle tecniche, ma invito gli attori a trasmettere quel che sta dentro di loro».
Comincio a capire perché disse no a Luca Ronconi che la voleva in “Misura per misura”. È consapevole che molti suoi colleghi avrebbero fatto carte false?
«Sì e penso che Ronconi sia con Strehler uno dei più grandi registi che abbiamo avuto in Italia ma io non me la sono sentita. Ho avuto paura di quel mondo di suoni e lo iato tra pensiero e parola mi spaventava, sentivo che i suoni e i toni venivano prima della vita».
Facciamo un’associazione licenziosa: la sfida di Ronconi era portare a galla il livello del pensiero attraverso la parola e proprio Petrolini fa dire a Chicchignola che “il pensiero è l’unica vera nostra proprietà”.
«Io concordo con chi disse che “il pensiero quando passa per la bocca diventa vecchio”. Credo nella parola ma se non c’è il corpo e il fisico che esprima uno stato d’animo, non basta».
Allora mi dica di quella scena che ha inserito ne “Il grande dittatore” in cui ballava con un manichino che aveva per testa il mappamondo di Chaplin.
«Ho voluto percorrere una strada meno convenzionale rispetto a quella che tutti conosciamo (Chaplin fa ruotare il mappamondo su una mano, nda) e ho pensato di fisicizzarlo».
Non era la prima volta che si ispirava al cinema.
«Oggi è difficile non cercare oltre il teatro e nel cinema a volte finisci per scoprire che c’era dentro un taglio teatrale. In questo caso il tema del doppio, molto affascinante per un attore. Inoltre mi interessa sempre la tematica della giustizia sociale».
E allora chiudiamo con la celebre battuta di Brecht in “Puntila e il suo servo Matti”: chi è in basso è costretto a restare in basso perché chi è in alto possa restare al suo posto.
«Niente di nuovo, purtroppo. Oggi come 2000 anni fa. Pensiamo alle “Verrine” di Cicerone: Verra non le ricorda qualcuno?».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco