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Bambina D’oro… tea

la figlia di Alex Del Piero, bandiera della Juventus, entra nelle giovanili delle Women bianconere. Grande eco mediatica, ma sarebbe giusto lasciar divertire un’adolescente senza paragoni ingombranti

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La figlia di Mango vince Sanremo, il figlio di Maldini debutta in Nazionale, la figlia di Comencini s’afferma sempre più come regista. Non ci sono, dietro, scorciatoie o facilitazioni, l’arte non contempla raccomandati o imboscati perché senza talento non puoi reggere confronti duri men che meno raggiungere livelli altissimi. Forse all’inizio del percorso c’è il vantaggio del conoscere l’ambiente, nel prosieguo però la fatica non fa sconti e addirittura, talvolta, si moltiplica: colpa dei paragoni ingombranti, delle ombre che s’allungano, dell’etichette di rampollo e del cognome pesante che oscurano personalità e doti proprie. Nell’adolescenza, quando sei ancora una promessa, tutto si espande: devi crescere, capire se davvero il dna ti ha baciato, se la passione può diventare mestiere, intanto t’accolli attenzioni e attese che diventano pressioni, vorresti solo divertirti e invece devi gestire curiosità fameliche, ribellarti a responsabilità eccessive e ingiuste. L’ultimo caso coinvolge Dorotea, ragazzina innamorata del pallone e così bravina da finire nella cantera della Juventus Women, laboratorio del futuro bianconero protetto per rispettare la serenità delle giovani atlete e comunque senza riflettori grazie a un interesse, mediatico e popolare, risicato. Con lei cambia tutto perché di cognome fa Del Piero e papà della Juventus non è stato un semplice calciatore, ma un simbolo, una bandiera, il capitano c’è solo un capitano, il fedelissimo arrivato enfant prodige e partito dopo aver sfidato il tempo, attraversando epoche felici di trionfi ma accettando anche, da campione del mondo, la Serie B che fu sanzione di Calciopoli pur di non abbandonare la nave. Aveva promesso di restare per restituire il suo club ai fasti antichi e difatti salutò con lo scudetto sul petto, dentro uno stadio traboccante di commozione, la partita ridotta a sfondo del suo addio.
Dorotea, classe 2009, aveva tre anni quando papà fece piangere lo Stadium ma è cresciuta nel suo mito, attraverso ricordi e racconti, accostandosi al calcio con naturalezza, per gioco e non per imitazione men che meno imposizione. È cresciuta a Los Angeles, in quell’America dove il calcio femminile è sport diffuso e radicato, più seguito e vincente del maschile, accorgendosi, inseguendo fin da piccolina un pallone, d’avere stoffa ma incollata al sogno d’ogni bambina senza smarrire il primo faro: il disincanto e la formazione dello sport che non è solo tecnica, ma insegna la condivisione, modella il carattere, trasmette spirito di squadra, allena alla competizione e il sacrificio. Però, sin dai primi gol, il cognome ha pesato, figurarsi ora che è arrivata in bianconero e le suggestioni si moltiplicano. Alla prima giornata, il campetto periferico raggiunto dall’Under 17 Women, ha avuto addosso mille occhi, essendosi sparsa voce che oltre alla ragazzina, in realtà nemmeno convocata, sarebbe venuto il papà a tifare. Speriamo l’eco si disperda e si rispetti la tranquillità di Dorotea: verrebbe da aggiungere quella della famiglia, ma in fondo l’abitudine al successo e ai suoi prezzi è antica, i ragazzi invece hanno diritto a divertirsi e vivere lo sport in leggerezza a prescindere da alberi genealogici e blasoni. Lasciamo sorridere Dorotea, come il fratello Tobias che gioca nell’Under 18 dell’Empoli, poi vedremo se diventerà una campionessa, se davvero le rose fioriranno. E anche in quell’eventualità, rispettiamo la sua persona senza condannarla a paragoni ingombranti.