Mi trovo in una grande sala prove nell’hinterland della capitale e osservo, appartata, ragazze e ragazzi che si guardano tra loro. Dritto negli occhi, nessun movimento del corpo. Camminano lenti e niente più. Rispondono a una precisa consegna che arriva dall’acting coach, un attore navigato quanto basta per mettersi generosamente a disposizione delle nuove leve, persuaso che «nella loro incoscienza ci sia un grande talento». Simone Ciampi, leva ’77, un bel curriculum di palcoscenico e consistenti puntate nel cinema compresi due film con i fratelli Taviani, sostiene che per avvicinarsi a questo mestiere bisogna «ripartire dal punto zero».
Che sarebbe?
«Lo sguardo. Ai ragazzi dico “guardatevi”, osservate le varie sfumature che ogni viso vi trasmette, ogni occhio ha la sua storia. E grazie a quello specchio vedrai che anche tu hai una storia da raccontare. Molti ragazzi non sanno di avere una storia che può diventare racconto e ogni storia ha la sua straordinarietà».
E dopo gli occhi come si arriva alla parola?
«Li invito innanzitutto a lavorare sulla parola che arriva dalla loro interiorità, a trovare la musicalità del proprio pensiero».
Sì ma recitare è altra cosa.
«Certo, ma si parte sempre da lì. Dalla propria unicità, che è il più grande strumento che possediamo se vogliamo fare spettacolo. Io esorto i ragazzi a trovare quel che di proprio non sapevano di avere se non imitando».
Eppure lei viene dal teatro di parola, anche ben rivendicato.
«Io ho una preparazione prettamente teatrale legata al linguaggio, basata sulla parola come veicolo di significato e di senso. Ma questo veicolo deve restituire una credibilità e la credibilità è possibile se è frutto di un percorso interiore, della loro vita e della loro emotività. Io dissuado dall’imitare i miei toni e i miei modi ma li esorto a seguire il proprio percorso per arrivare a una credibilità da porgere con la parola».
Ma da dove le viene questa sensibilità ai suoni interiori?
«Dopo il diploma alla Silvio D’Amico ho fatto due anni di compagnia con Giancarlo Sepe con cui ho lavorato in tre spettacoli, comprese “Le favole di Oscar Wilde”. Sepe mi ha aiutato a tirare fuori la musicalità del mio corpo e del mio sguardo. Poi ho maturato il desiderio che questa stessa musicalità arrivasse anche al linguaggio e alla parola».
In accademia ha avuto un maestro del teatro di parola come Luca Ronconi.
«Il primo incontro con un teatro in cui la potenzialità della parola è infinita. Ma in accademia ho avuto la fortuna di avere maestri di scuole di pensiero differenti e di confrontarmi con diversi linguaggi. Armando Pugliese, Lorenzo Salveti, Michele Monetta, che lavorava in modo particolare sul corpo».
Il risultato?
«Una propensione per il teatro di parola che si unisce al cuore e alla mente».
Uno spettacolo che ricorda con particolare gratitudine?
«Sono tanti ma le dico “ll giardino dei Finzi Contini” con la regia di Piero Maccarinelli e l’adattamento di Tullio Kezich che era stato un bell’incontro tra i diplomati della Silvio D’Amico e il Centro Sperimentale di Cinematografia. Io avevo due piccoli ruoli, un muratorino e un cane bassotto».
Un cane bassotto?
«Sì, vestito di giallo. Un omaggio al “Signor Bonaventura” di Sergio Tofano: fu un successo. Massimo Popolizio mi vide, gli piacqui e mi chiamò per fare una parte nel “Cyrano de Bergerac”».
E come andò?
«Bene. Popolizio per me era il top, sono sempre stato un fan di “Peer Gynt” (Popolizio è stato uno dei massimi interpreti del ruolo, nda) e ai provini portavo sempre il monologo della cipolla».
Cosa la affascina di Peer Gynt?
«Il suo essere sognatore, Peer è un essere imprevedibile, un affabulatore che racconta storie straordinarie».
Quando una storia è davvero straordinaria?
«Quando ti volti indietro e ti rendi conto di esserci dentro con tutte le scarpe, anche quando pensavi di esserne uscito».
Allora perché non si propone come Peer a Daniele Salvo, regista con cui collabora con continuità da parecchio tempo facendo un lavoro molto chiaro sulla scia di Ronconi?
«Chissà! Con Daniele ho fatto molto Shakespeare, Pasolini, i classici greci e ho scoperto ancora un’altra fetta di mondo. Lui porta avanti il lavoro di Ronconi di cui è stato allievo e collaboratore ma con una sua propria autonomia e io ho capito che si può aderire a un linguaggio dato mantenendo viva la propria emotività».
E dai ragazzi si può imparare qualcosa?
«Dai ragazzi si impara tantissimo: soprattutto dalla loro incoscienza nel buttarsi senza rete. Noi che siamo più strutturati siamo anche meno temerari».
Quando ha capito che voleva fare l’attore?
«Guardando le foto di mio nonno con Sofia Loren e Marcello Mastroianni. Era stato assistente personale di Federico Fellini e anche se io non ho ricordi diretti perché quando è morto ero troppo piccolo, ho respirato quell’aria attraverso i racconti di mia nonna e di mia madre. Da bambino costringevo i miei compagni a travestirsi con gli abiti dei genitori per giocare al teatro».
A parte Peer Gynt c’è un ruolo che le sta particolarmente a cuore?
«Frate Lorenzo in “Romeo e Giulietta” perché si collega perfettamente con il modo in cui mi sto relazionando con i giovani».
In modo poco ortodosso dunque.
«Ma perché? Frate Lorenzo stava dalla loro parte».
Certo. Nessun altro?
«Beh, Amleto, Riccardo III. Di Riccardo mi affascina la menomazione dell’anima, quella di un essere fragilissimo che compie in modo efferato i peggiori delitti. Ma la mia sfida sarebbe far emergere un sentimento di amore: per sé stesso e anche per qualcosa che gli gira intorno».
A cura di Alessandra Bernocco