Home Articoli Rivista Idea «Follemente corretto non significa giusto: ecco cosa rischiamo»

«Follemente corretto non significa giusto: ecco cosa rischiamo»

Il sociologo ha scritto un saggio per evidenziare i danni di quella che definisce un’isteria diffusa: «Ci sono le “vestali della Neolingua” che diffondono nuove parole, le lobby del Bene che impongono come pensare in materia di diritti e le guardie della “diversity”. Le conseguenze? Le vediamo su donne e adolescenti»

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A prescindere dalle ideologie, tutti noi abbiamo assistito in questi an­ni agli effetti talvolta grotteschi dell’imposizione diffusa del “politicamente corretto” nella nostra società. Sono comunque segnali rivelatori di un processo di cambiamento culturale che procede spedito: quante volte, guardando per esempio un film degli anni ’80, ci è capitato di notare l’uso ingenuamente incontrollato di espressioni – spesso legate alla sfera sessuale, ma non solo – che oggi sono ritenute invece discriminatorie. Nel dibattito tra chi, almeno in parte, giustifica quel mondo ingenuo ma sincero e chi invece ne prende le distanze, si inserisce la teoria del saggio “Il follemente corretto”, firmato dal sociologo Luca Ricolfi. Dove si presenta il “politicamente corretto” co­me un’isteria diffusa, specie associata alla politica di una sinistra sempre più elitaria: dal banchetto Lgbtq+ visto alla cerimonia di presentazione alle Olimpiadi di Parigi ai cosiddetti “abbagli” del pa­triarcato, fino alle concessioni nei confronti dell’Islam. Il professor Ricolfi segnala tutta una serie di “follie” diffuse. Tra queste, l’im­possibilità di usare forme di saluto come «care signore e cari signori» per non escludere chi non si sente né femmina né ma­schio; la censura che ha colpito espressioni come «elefante nano» oppure la «fortuna è cieca» perché potrebbero of­fendere alcune categorie di persone; i regolamenti che ob­bligano a declinare i ruoli al femminile. Per approfondire l’argomento, ab­biamo chiesto direttamente al presidente della Fon­dazione David Hu­me di raccontarci questa di­stopia.

Professore, possiamo affermare che il “politicamente corretto” è degenerato in qualcosa che tutti detestiamo, ma di cui siamo già vittime?
«Non esattamente. In realtà non tutti lo detestiamo, ci sono anche gli attivisti dei diritti e i fanatici che non solo non lo detestano ma lo promuovono. Fortunatamente, però, almeno le forme più assurde del politicamente corretto – quelle che io definisco “follemente corrette” -sono ignorate o mal sopportate dalla maggioranza dei cittadini».

I concetti del politicamente corretto vengono reiterati sui social e sui media: un martellamento culturale effettuato con quale fine? Sono le “nuove élite” – come sostiene nel libro – a guidare questa rivoluzione culturale?
«Il fine tipico della reiterazione social è l’accrescimento dell’autostima, come conseguenza della propria adesione a una causa ritenuta giusta e indiscutibile: il follemente corretto spesso altro non è che una forma di esibizionismo etico. Riguardo alle élite in ascesa, nel mio libro ne individuo essenzialmente tre. Innanzitutto, le vestali della Neolingua, ossia quanti nel mondo dei media, delle università, del giornalismo, delle burocrazie aziendali e pubbliche, si occupano di diffondere e far rispettare il linguaggio considerato corretto. Poi ci sono le lobby del Bene, ossia le associazioni di attivisti che instancabilmente cercano di imporci come pensare e che cosa fare in materia di diritti, dalle rivendicazioni Lgbtq+ ai diritti dei mi­granti. Infi­ne ci so­no le Guar­die ros­se della “di­ver­sity”, ossia gli staff che nelle università, nelle aziende e nel­le istituzioni pub­­bliche che cercano di sensibilizzarci e vigilano sui nostri comportamenti».

Quali sono le conseguenze già tangibili nella nostra società e cosa dobbiamo aspettarci?
«Le conseguenze più profonde sono nel mondo della cultura e della comunicazione, do­ve orami vige un clima di in­timidazione e di autocensura. Ma le conseguenze più gravi riguardano specifiche categorie, in particolare le donne e gli adolescenti. Le lobby trans, in particolare, tendono ad invadere gli spazi riservati alle donne, ad esempio nelle carceri e nelle competizioni sportive, e a mettere a repentaglio la salute psico-fisica degli adolescenti con le pressioni a intraprendere percorsi di transizione precoci».

Sono state le istanze del mo­vimento Lgbtq+ a creare i ma­ggiori “scompensi”?
«In realtà la galassia Lgbt, ora evoluta in Lgbtqia+ (e secondo alcuni addirittura in Lg­btqiapk+) è molto composita. Ci sono associazioni, come Lgb Alliance nel Regno Unito o Arcilesbica in Italia, che di­fendono i diritti delle minoranze sessuali in modo perfettamente ragionevole. Ma ci so­no anche associazioni co­me Stonewall nel Regno Uni­to, e in parte Arcigay in Italia, che hanno posizioni molto più radicali e discutibili, e sono fortemente condizionate se non egemonizzate dall’attivismo trans».

Anche il tema della violenza di genere è soggetto a questa tendenza oppure in certi casi non si può fare a me­no di es­sere “politicamente corretti”?
«Pensare che la violenza di ge­nere abbia radici nel linguaggio è molto ingenuo e fuorviante, e in definitiva controproducente. In ma­te­ria di violenza sulle donne, il politicamente corretto classico va sempre bene, purché non ci si illuda che possa evitare o attenuare i drammi che vivono tan­te donne. Drammi che han­no radici in meccanismi economici, sociali e psicologici che non possono certo essere neutralizzati per via linguistica».

Lei ha sottolineato come queste battaglie danneggino gli stessi partiti progressisti nel mondo. Come dovrebbe agire la sinistra nei confronti di queste tematiche?
«La sinistra dovrebbe tornare alle sue battaglie classiche, occupandosi innanzitutto di diseguaglianza e sfruttamento. Su questo sono in pieno accordo con Norberto Bob­bio, che giusto trent’anni fa, in un interessante scambio di idee con il sociologo Ales­sandro Pizzorno, invitava a non sostituire la coppia ugua­glian­za/disuguaglianza con quella inclusione/esclusione. I diritti civili sono importanti, e vanno rafforzati, ma a due condizioni: che non si scambino semplici desideri per diritti universali, e non si trascurino le battaglie per i diritti sociali».

“Politicamente corretto” e “buonismo” sono la stessa co­­­sa?
«Sono concetti affini, ma non identici. Il buonismo è un’attitudine psicologica a trattare in modo acritico, e tendenzialmente favorevole, determinate categorie di persone, giudicate meritevoli di attenzione, aiuto e protezione a prescindere dai loro comportamenti e dai loro meriti. Il politicamente corretto ha qualcosa in più, perché ac­campa – spesso in nome di principi cari ai buonisti – pretese di regolazione del comportamento altrui. Insomma, il buonismo è benevolenza, il politicamente corretto è (an­che) comando».

CHI È

Sociologo e politologo, nato a Torino il 4 maggio 1950. Ha fondato l’Osservatorio del Nord Ovest e, insieme a Silvia Testa, la rivista di analisi elettorale Polena. È stato direttore dell’Osservatorio del Nord Ovest, della rivista di analisi elettorale Polena e membro dell’Eas

COSA HA FATTO

Fra i suoi ultimi libri: “L’enigma della crescita (2014)”, “Sinistra e popolo (2017)”, “La società signorile di massa” (2019), “Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza” (2021) e “La rivoluzione del merito” (2023)

COSA FA

Per l’editore La Nave di Teseo ha appena scritto “Il follemente corretto” per stigmatizzare gli eccessi del politicamente corretto, paradigma culturale che ci accompagna ormai da tempo nell’evoluzione della nostra società. Sottolineando il paradosso della neolingua: nata per includere, finisce invece per escludere. Ricolfi insegna Analisi dei dati all’Università di Torino