Home Articoli Rivista Idea «Il marketing regna e ci condiziona tutti dove nasce la spinta?»

«Il marketing regna e ci condiziona tutti dove nasce la spinta?»

La poliedrica Lucia Mascino a teatro con “Sen(n)o”: «C’è bisogno di ragionare sui nostri comportamenti sociali. Il revenge porn? È violenza e basta. Con “Terapia di gruppo” mi sono divertita tanto. Amo i cattivi quando fanno ridere»

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In che modo la sovraesposizione del corpo, la sessualizzazione precoce e finanche la pornografia, nell’era di internet, ha inciso sulla nostra cultura? In che modo la sua manipolazione ha modificato la nostra percezione? A queste domande c’è chi ha provato a rispondere attraverso il teatro, che spesso offre l’assist per colpire nel segno. Senza far male, facendo pensare e magari pure sorridere. È il caso di “Sen(n)o”, il monologo scritto da Monica Dolan e tradotto da Monica Capuani, interpretato da Lucia Mascino, poliedrica attrice dalla quasi ventennale carriera mai interrotta. «In diciassette anni non ho fatto teatro per due anni soltanto». Per fare cinema, sa va sans dire, che fin dagli esordi alterna a teatro e televisione. Di questo te­sto, che ha debuttato con successo lo scorso anno a Milano per la regia di Serena Sinigaglia, in programma a Roma al Teatro Va­scello il 4 novembre (segue to­urnée), usa parole come «ur­genza», «manipolazione», «iden­tità plasmata da modelli di marketing più che situazioni reali».

E allora parliamone cominciando dal gioco di parole: come perdere il senno parlando del seno.
«La perdita del senno è il punto di partenza del personaggio, una psicoterapeuta esperta ma che all’improvviso non si sente più in grado di valutare i casi che le vengono sottoposti».

E quali sarebbero questi casi da valutare?
«Il caso di una donna che rischia il carcere per aver sottoposto la figlia di sette anni a un intervento di chirurgia plastica che le ingrandisse il seno. Il giudice del tribunale la chiama per indagare nella mente di questa donna e lei… ».

Perde il senno.
«Sì, nel senso che è chiamata a dare un giudizio ma non ci riesce. Ma invece di accusare la madre, invece di puntare il dito sul mostro, prova a zoomare indietro».

E cosa vede?

«Capisce che la parola colpa non risolve la questione e che si tratta invece di percorrere un discorso più ampio che ha a che fare con la responsabilità, che non è singola ma collettiva e chiama in causa questo mondo di marketing in cui siamo im­mersi, la pressione sociale e il bisogno di vendere a qualsiasi costo. Anche se a monte non c’è una cattiva intenzione, la necessità di vendere passa sopra tutto. Distinguere è sempre più difficile, anche per chi è colto e preparato».

Il testo suggerisce una strada?

«Il testo ci pone delle questioni e ci invita a riflettere. L’autrice lo ha scritto anche perché le leggi stanno un po’ cambiando. In Svezia adesso la crema antirughe per le dodicenni è vietata. Ma c’è un segmento di mercato libero che continua, per esempio, a proporre reggiseni imbottiti a bambine di otto anni e scarpe col tacco».

La chirurgia è ancora un passo oltre.
«Ma la domanda è sempre “da dove nasce la spinta”. Ci sono App sulla chirurgia plastica che possono scaricare tutti dove ti chiedono come ti vorresti. Im­magini predisposte per modificare il tuo pensiero. Quando io facevo il saggio di ginnastica facevo ginnastica e basta, oggi le ragazzine fanno anche tutte quelle mossette maliziose che sono entrate nel loro cervello senza che se ne siano accorte. Credo ci sia un gran bisogno di ragionare su queste questioni, io mi sento molto toccata».

Infatti la vedremo anche nella seconda stagione di “Nudes”, serie diretta da Laura Luchetti e Marco Danieli su RaiPlay dal 25 ottobre, che affronta un altro fenomeno particolarmente insidioso come il re­venge porn, ci dà un’anticipazione?
«Il revenge porn è una violenza bella e buona ed è sbagliato chiamarla vendetta. Il tema è de­licato e drammatico insieme. La storia di cui sono protagonista inizia in modo leggero ma poi precipita, c’è una componente di suspense in cui la domanda è “perché qualcuno mi vuole fare del male in questo modo”».

Il 21 novembre invece uscirà al cinema “Terapia di gruppo”, un film di Paolo Costella dove sarà coprotagonista accanto a Margherita Buy, Claudio Bisio, Claudio Santamaria. Di cosa si tratta?
«Un gruppo unico. Io interpreto la segretaria impicciona di uno studio di psicoanalisti che si prende dai pazienti affetti da sindromi compulsive, le accuse per il loro ritardo, e tra un’accusa e l’altra prova a dire la sua. Mi è stata data molta fiducia, il regista mi ha detto “fai quello che vuoi”, e la cosa rientrava perfettamente nel personaggio, una segretaria fuori luogo ri­spetto al ruolo».

E quanto si è divertita?
«Tanto. Anche perché mi sono trasformata, qui ho i riccioli corti e scuri e quando ho letto il copione ho proprio immaginato il personaggio così. È molto bello quando le visioni coincidono e la trasformazione è sempre un bel trampolino di lancio per incominciare a giocare. Quando un personaggio è così lontano da te il gioco è già attivato».

A proposito di gioco, penso alla sua collaborazione con Filippo Timi che ha generato spettacoli che dire giocosi è un eufemismo. Ricordo Donna Elvira, gattoni, nel Don Giovanni, che fiutando non si sa bene cosa pronunciava ripetutamente la pa­rola con la doppia zeta.
«Timi è l’energia che ti butta addosso al pubblico».

Diverso il lavoro con Lucia Calamaro, autrice con cui ha avviato un bel sodalizio da “L’origine del mondo” a “Smarrimento”, sorta di riflessione sul blocco dello scrittore.

«Quello di Lucia è un lavoro diametralmente opposto a quello di Timi, un lavoro di sparizione, di borbottio a voce alta che porta il pubblico nei tuoi pensieri».

Ecco, il pubblico. Che rapporto ha con gli applausi a scena aperta?

«La presenza, l’ascolto e il ri­mando del pubblico per me è fortissimo e a volte all’applauso preferisco il silenzio, sentire che c’è comunicazione emotiva dove io funziono come conduttore e loro sono la cassa di risonanza. Recitare è anche un po’ reagire e il consenso del pubblico è il segno che quello che ho scelto di fare mi apparteneva».

Una cosa che proprio non sopporta del suo lavoro?

«Quando il cinema sembra che scopra attori che facevano teatro da trent’anni. Il punto è che il riconoscimento non coincide con la fama e a volte sembra che se non ti battezza il cinema non sei abbastanza riconoscibile».

I personaggi che ama di più?

«Mi divertono molto i cattivi quando fanno ridere».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco