«Acqua non potabile: Attenzione!». Trent’anni dopo, Francesco Morabito ha ancora in mente l’attimo in cui ha scritto di fretta quel cartello con un avviso cruciale e l’ha appeso fuori dal Municipio di Alba. Nel 1994, durante l’alluvione di novembre che causò circa 70 vittime e 2.200 sfollati tra Cuneo, Asti, Alessandria e Torino, dirigeva la Struttura di Igiene e sanità pubblica dell’allora Asl 18 (Alba e Bra). «Dovevamo dire a tutti che bisognava fare attenzione anche solo a toccare l’acqua che usciva dai rubinetti. Non era più sicura. Ma le comunicazioni erano già tutte saltate, spargere la voce era difficilissimo. Ho pensato a un cartello, l’ho messo nel punto in cui speravo avrebbe avuto più visibilità».
Morabito è stato uno dei volti chiave della gestione di quell’emergenza. La fase più dura è iniziata nella notte tra il 5 e il 6 novembre. Pioggia, tanta pioggia; i fiumi che non reggono, l’acqua che inizia a invadere le strade e diventa fango, travolge tutto. Anche nella Granda, da tempo si era sparsa la voce che in quei giorni il meteo sarebbe stato terribile. Nessuno, però, si aspettava un tale disastro. E, da allora, le regole per la sicurezza e la prevenzione sono cambiate, per cercare di non ripetere la tragedia che, in questi giorni, viene ricordata in tutta la provincia.
Morabito, qual è la prima scena che le viene in mente, se ripensa a quelle giornate complicate?
«Appena ho capito che la situazione era ben peggiore di quello che ci si immaginava, ho pensato ai miei cari. Erano tutti ad Alba, mentre io ero a casa mia poco fuori dalla città. Sono partito e sono andato prima dai miei genitori, per aiutarli a mettersi al sicuro. Poi da mia moglie, che insegnava in una scuola di Corneliano. Le strade erano già allagate, ma non era niente rispetto a cosa ci sarebbe stato da lì a poco».
Non ha smesso di piovere, i fiumi hanno rotto gli argini ed è iniziato il disastro. Eravate attrezzati per un’emergenza di quel tipo?
«Si può dire che la protezione civile sia nata dopo l’alluvione del 1994. Le forze dell’ordine, i referenti delle aziende sanitarie, le autorità del territorio: tutti eravamo formati per intervenire nelle situazioni complicate, ma non c’erano i protocolli di oggi. Abbiamo dovuto imparare a coordinarci, capire come muoverci e farlo in fretta».
Quando l’alluvione è diventata anche un problema di igiene?
«Non è servito molto tempo. Le strade si sono allagate, i paesi erano sommersi. In più punti, la rete idrica è stata compromessa e al suo interno sono entrate sostanze e materiali che hanno messo a rischio la potabilità dell’acqua. In diversi casi, poi, ci sono stati problemi con le fogne, con tubature rotte e liquami diffusi al di fuori delle reti fognarie. Di fatto, da questo punto di vista, c’era un problema doppio».
Quale?
«L’acqua dei rubinetti di casa non era utilizzabile. Anche fuori, nelle strade allagate, bisognava fare molta attenzione, perché acqua e fango erano malsani».
In questi frangenti, la comunicazione è essenziale. Non bisogna creare il panico, ma tutti devono essere informati e aggiornati. Come vi siete mossi per gestirla nel miglior modo possibile?
«Non si poteva usare Internet, come probabilmente si farebbe oggi in una situazione analoga, ammesso che la rete tenga. Non si poteva neanche andare porta a porta. Chi c’era, non se lo dimenticherà mai: anche la luce era saltata, nelle prime ore. Era un contesto complicatissimo. Nelle prime ore, ci siamo arrangiati come potevamo. È qui che ho posizionato quel cartello fuori dal Comune di Alba. Speravo che lo vedessero in tanti».
È servito?
«I cittadini, ovviamente, avevano l’invito di stare in casa e credo che pochi l’abbiano visto. Però da quel punto transitavano tutte le persone che operavano per gestire l’emergenza. Così la voce, grazie a loro, si è sparsa rapidamente».
Anche negli ospedali l’acqua non era potabile e mancava la luce?
«Sono stati momenti difficili, ma grazie alla collaborazione di tutti è stato possibile trovare sempre soluzioni rapide. Sono arrivati dei grandi gruppi elettrogeni e delle cisterne riempite dai pochi acquedotti che non erano rimasti danneggiati».
Poi c’erano i problemi delle aziende.
«Sono rimaste danneggiate 1.720 aziende agricole, 218 apiari, 7.600 attività produttive. Anche qui, in molti casi, la questione era molto delicata anche dal punto di vista dell’igiene. Penso, per esempio, agli allevamenti. Dopo i primi giorni, le strade erano libere dall’acqua. Ma l’emergenza e le difficoltà sono andate avanti molto più a lungo».
Si è sentito impotente, in alcuni frangenti?
«La natura è sempre più potente di ogni uomo. Noi andavamo avanti, lavoravamo, cercavamo di fare il meglio. C’era poco spazio per pensare a come ci si sentiva. La collaborazione tra i territori ha fatto la differenza».
Trent’anni dopo, che senso ha ricordare la tragedia dell’alluvione del 1994?
«È un’occasione per parlare di prevenzione e continuare a informarsi e formarsi sulla gestione delle emergenze. Poi, è doveroso celebrare la reazione dei territori in quelle giornate terribili. Oggi i protocolli sono diversi, ci sono strumenti migliori di prevenzione, ma quella disponibilità alla collaborazione va rivendicata e preservata».
Articolo a cura di Luca Ronco