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«Essere madre oggi con l’ammirazione per questi ragazzi»

Sara Bertelà in scena con “Chi come me”: «Orgogliosa di essere accanto a cinque giovanissimi attori che portano a galla il disagio di cui è doveroso parlare in questi tempi»

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Se chiudo gli occhi la rivedo in groppa a Giorgio Albertazzi, in­citarlo divertita come si fa con un cavallo da corsa. Era Cor­delia, la figlia prediletta e incapace di mentire di un Re Lear irresistibilmente fanciullesco, che non si dimentica. Lei è Sara Bertelà, lo spettacolo risale ai primi anni novanta e questa scena, tra bambole di pezza e magnifici giocattoli firmati da Emanuele Luzzati, anche adesso le rende giustizia. Nel senso che questa at­trice di razza di cui non conosco l’età, dal volto diafano e i riccioli biondi, sembra davvero una ragazzina senza tem­po. Anche oggi che la chiamano da più fronti, dal cinema al teatro, per interpretare il ruolo di madre. Madri diverse del repertorio classico come la Gertrude di Amleto e la madre pirandelliana dei Sei personaggi ma anche madri dei giorni nostri, appena un po’ più colorate, per rendere meglio l’idea dei quotidiani travagli, delle paure, delle difficoltà e della fatica di essere madri di figli non perfettamente allineati. È quello che succede in “Chi come me”, lo spettacolo diretto da Andrée Ruth Shammah dal testo di Roy Chen, in scena al teatro Franco Parenti di Milano fino al 1° dicembre, dove Sara interpreta ben cinque madri diverse di ragazzi e ragazze ricoverati in un centro di salute mentale.

Una bella sfida.
«Sì, sono molto orgogliosa di essere accanto a cinque giovanissimi attori, due dei quali minorenni, studenti di liceo. Cinque creature per cinque sindromi che portano a galla il disagio di tanti ragazzi di cui è doveroso parlare. È importante che questo spettacolo abbia fatto clamore e che viva di un bel passaparola tra genitori, figli, insegnanti. Una bomba positiva che semina il desiderio di confronto».

Lei è madre di un ragazzo di diciassette anni, quanto è stato utile essere madre nella vita per tratteggiare queste cinque figure così differenti?
«Certamente ho attinto al mio essere madre che però significa anche essere stata accanto ad altre madri, come quelle degli amici di mio figlio. Ma quando parlo dei miei personaggi di madre mi viene spontaneo parlare dei figli. Ho grande ammirazione per gli adolescenti di oggi che stanno attraversando uno dei mo­menti più bui della storia, e la consapevolezza di tutto quello che di brutto sta succedendo – guerre, disastri, degrado ambientale – genera sofferenza e vero e proprio terrore per il futuro. È impossibile astrarsi e patologie come l’anoressia, la depressione, l’isolamento sociale fino alla sindrome dell’hikikomori, persino i suicidi sono in aumento».

Per questo anche queste madri sono un po’ sopra le righe.

«Chiaramente qui c’è il gioco del teatro, l’ironia, la caratterizzazione ma tutte, in vario modo, possono sfiorare il pianto. C’è la paura di non farcela, la volontà di proteggerli nascondendo le proprie zone d’ombra dietro grandi occhiali scuri, e soprattutto c’è la consapevolezza di non avere saputo seminare la capacità di essere felici. La cosa più difficile per una madre».

L’idea della semina ritorna nei suoi pensieri. Lei dove ha raccolto i primi semi di questo mestiere?
«Dall’ultima fila di un teatro di Genova, la mia città, dove Albertazzi faceva “Riccardo III”. Quante cose mi ha seminato dentro! In Riccardo non vedevo soltanto l’odio ma la passione, l’amore. Quello spettacolo mi fece esplodere e maturare la consapevolezza di come il teatro possa essere semina e i corpi fonte di energia ed emozioni».

Quanta energia è servita per dare vita alla madre dei “Sei personaggi in cerca d’autore”?

«Tanta perché a differenza degli altri personaggi, lei chiede di non rivivere la stessa scena di sofferenza. L’aspetto più interessante è che questa madre è il personaggio che Pirandello indicava come il più naturale, il meno personaggio, quello che ha dentro di sé la necessità e il desiderio di vivere non per replicare ma proprio per vivere finalmente la scena che non ha avuto con il figlio. Quella in cui lo accoglie e perdona e per questo vorrebbe riconosciuto il suo amore. Un paradosso che la regia di Valerio Binasco mette bene in evidenza».

Un po’ diversa la Gertrude dell’“Amleto” diretto da Da­vide Sacco.

«Una Gertrude più madre che mai! Perché se in “Amleto” la passione di Gertrude è soprattutto indirizzata al cognato Claudio, qui il regista ha voluto che fosse ossessionata dall’amore per il figlio».

Una forte rivisitazione delle intenzioni. Quanto è disposta, come attrice, ad assecondare la lettura del regista?
«Mi piace sempre abbracciare l’idea di regia che si crea durante le prove insieme ai colleghi. Se mi viene chiesto di raccontare una storia, adoro aderirvi anche se è lontana dal mio punto di vista. Mi piace cambiare rotta che non significa sempre cambiare idea ma sintonizzarsi su una linea comune. Negli anni si acquisisce morbidezza e la disponibilità all’ascolto au­menta, si buttano giù inutili barriere».

Ora è in prova per uno spettacolo che farà sicuramente parlare, “Thelma & Louise, trent’anni dopo”, ispirato al film di Ridley Scott con Susan Sa­randon e Geena Davis. L’idea e la regia è di Consuelo Barilari e il testo di Angela Di Maso, debutto il 13 dicembre al Teatro Eleonora Duse di Ge­nova. Con lei nel ruolo di Louise ci sarà Galatea Ranzi, un’altra prima attrice con cui divide la scena per la prima volta. Com’è andata?
«È andata che con Galatea potrei fondare una compagnia, in lei ho trovato una potenziale compagna assoluta. La stimavo molto come collega ma non avrei mai pensato potesse essere così simpatica, diretta, giocosa. Nes­suna competizione, tanta complicità».

Si dice sempre così…
«Garantisco. In questi mille anni non ci eravamo mai incontrate e sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa invece c’è davvero il desiderio di entrambe di essere una la forza dell’altra. Non è sempre facile dare o ricevere da una collega un suggerimento tecnico o un modo di formulare una frase, invece siamo proprio due reali Thelma e Louise».

Come avete risolto a teatro la fuga in macchina delle due?
«Raccontando una sospensione, sa il paradosso del gatto di Schrödinger che può essere contemporaneamente vivo e morto? Lo stato di sospensione è quello che noi viviamo, un luogo senza spazio e senza tempo in cui tutto è possibile, tutto può succedere, e si può giocare a qualsiasi cosa, sesso, amore, morte, maschi, viaggi, funerali».

La vedremo la scena del bacio saffico?

«Questo non posso svelarlo».
Capito.

Articolo a cura di Alessandra Bernocco