Il destino traditore

Matilde, promessa dello sci, aveva talento, amore, bellezza, futuro. In un attimo, sulla neve che tanto amava, ha perso tutto

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Il destino è traditore. Blandisce e in un attimo ruba, sfoglia sogni e risveglia bruscamente, illude, accarezza, sbalza, distrugge. Matilde aveva tutto. Bellezza e futuro, dolcezza e talento, una famiglia e un ragazzo che l’amavano, amici che condividevano speranze e segreti. Poi, d’improvviso, gli sci si divaricano su una pista dell’Alto Adige, la caduta sfocia in un impatto fortissimo, il volto sbatte sul ghiaccio e il buio che cala su tutto: sulle grandi promesse sportive e sulle piccole gioie d’ogni giorno, sul sorriso e sull’amore, sui titoli giovanili e sulla Coppa da affrontare, sull’azzurro che avrebbe indossato per anni, sulla fama ch’era scritta e arriva invece attraverso una tragedia senza ritorno. In tanti ignoravamo quanto brava fosse Mati, abbiamo scoperto di lei attraverso le lacrime di chi ne conosceva valore e valori. Fatalità, ci spiegano. Il tratto dov’è scivolata era semplice e altre cento volte si sarebbe rialzata. Non c’erano rinforzi alle protezioni, ma spiegano che era giusto così: mai successo nulla, e infatti la Procura di Bolzano ha escluso in fretta responsabilità penali, però in assoluto è giusto registrare voci diverse, suggerimenti più che accuse, lezioni da memorizzare avendo ancora sperimentato come le tragedie siano in agguato anche su tracciati in regola, e riecco spuntare i dibattiti su airbag e caschi integrali, senza dimenticare che in ogni caso, con qualunque accorgimento, qualsivoglia protezione, lo sciatore è solo in compagnia della velocità e del rischio, come hanno ricordato nel dolore campioni di ieri e di oggi, fatalisti per esperienza diretta.
Conserveremo il sorriso di Mati, la dolcezza dei tratti e il sorriso pulito: prima che promessa dello sci, la giovane di Valgioie era nostra figlia, sorella, nipote, perciò ci sentiamo devastati come i suoi cari a pensare che era andata via per allenarsi ed è tornata a casa dentro una bara per un saluto inconcepibile, ingiusto e assurdo a 19 anni. Ci siamo specchiati nel dolore di Federico, il ragazzo, che l’aveva accompagnata al pulmino e mai avrebbe immaginato di perderla, che s’è precipitato per un ultimo bacio dopo aver appreso della caduta. E in quello di Lucrezia, sorella maggiore, che si chiede chi ha voluto portarle via Mati ma è certa che ne avesse bisogno, e del papà Adolfo già immerso in un progetto attraverso cui farla vivere e si prepara a bussare a porte infinite per realizzarlo, sicuro d’essere aperto in nome della sua bambina, innamorata della montagna e dalla montagna portata via.
C’erano tanti giovani al funerale di Mati a Giaveno, sguardi impietriti e occhi bagnati, compagni di scuola e di squadra, amici del paese, commilitoni e azzurri, e a loro s’è rivolta mamma Elena: «Dovete volervi bene, voler bene a voi stessi per dare il bene più puro a tutti gli altri». Lo facciano per Mati che non può più. O forse può di più da lassù, dove, tra poesia e speranza, Lucrezia l’immagina affrontare discese libere nella luce verde. Vogliamo crederci anche noi, è bellissimo pensarla così, è fede e speranza se qualcuno pensa retorica pazienza, è sempre un modo per immaginarla su di noi, oltre quel corpo immobile nella neve, ultima tragica impronta per usare la sua metafora dello sci, ch’era come dipingere proprio perché lascia tracce. Noi, però, più che dentro la luce verde, la vediamo in quella rossa d’un tramonto: quella d’una foto scelta per ricordarla e del video struggente che Federico ha postato. Il suo sorriso e quel ciao sussurrato prima di voltare il bel viso verso l’orizzonte.