La Lapponia non è soltanto una fredda regione del nord Europa, ma un modo di vivere e di comportarsi, e chissà se dopo una trasferta familiare da quelle parti non diventeremmo un po’ lapponi anche noi. Ce lo domandiamo da spettatori della commedia di Marc Angelet e Cristina Clemente, campione di incassi in Spagna e America e ora in Italia nella versione di Pino Tierno per la regia di Ferdinando Ceriani, presentata con l’audiodescrizione per pubblico non vedente e ipovedente. “Lapponia” il titolo, in tournée fino al 1° marzo con sosta a Torino, Teatro Gioiello, dal 21 al 24 novembre. In scena un quadretto familiare niente male – due sorelle, i rispettivi consorti e le inossidabili convinzioni dei figli bambini – che esplode intorno alla figura di Babbo Natale. Esiste, come racconta la nostra buona tradizione italiana, oppure è soltanto una trovata fittizia per obbligare i bambini a comportarsi a dovere, come verrà a galla durante il viaggio in Lapponia? E può una questione così frivola scatenare l’inferno in famiglia, sia pur consumato di fronte alle risate del pubblico? Ne parliamo con Miriam Mesturino, una delle protagoniste dello spettacolo insieme a Sergio Muniz, Cristina Chinaglia e Sebastiano Gavasso, nonché coproduttrice.
Possiamo dire che è una commedia dove, con un po’ di sadismo, si ride dei conflitti altrui?
«Innanzitutto è una commedia scritta bene, con una scrittura nuova. Dove attraverso gli scontri tra i personaggi si parla di educazione dei figli e di opportunità della scelta tra bugia e verità. Al centro c’è il dilemma di un bambino che non sa a chi credere: ai genitori che gli hanno sempre raccontato la favola di Babbo Natale o alla cuginetta che vive in Finlandia che gli svela il segreto».
E dal dilemma di un bambino di quattro anni si passa alla lite tra sorelle e tra famiglie.
«E da una discussione su cosa sia giusto raccontare ai figli si arriva a dibattere sulle diverse scelte di vita e su tutti gli atteggiamenti che differenziano noi dai nordeuropei».
E quali sarebbero queste differenze?
«Il finlandese ci accusa di gridare troppo e di essere propensi a imbrogliare, noi accusiamo loro di soffocare le emozioni».
Ma come arginare i luoghi comuni?
«Certo questi sono anche luoghi comuni. Io non conosco a fondo la cultura finlandese però da quel poco e da una amica finlandese che vive in Italia posso dire che noi abbiamo un’abitudine al convivio che a loro manca. Per esempio, quando diciamo andiamo a bere insieme: per noi è un pretesto per stare insieme attorno a una tavola a condividere un momento particolare, loro si siedono in fila lungo un bancone, ognuno con la propria bottiglia, finché non cadono dallo sgabello».
Il pubblico della prima milanese come ha reagito?
«Era molto partecipe e per noi è stata una verifica importante. La commedia fa ridere ma attraversa anche momenti di grande emozione in cui abbiamo avvertito l’attenzione del pubblico».
Lei da qualche anno si dedica anche alla produzione: un modo per continuare la tradizione di famiglia? Questo non è un segreto, lei appartiene a una solida famiglia di impresari teatrali torinese, figlia di Gian Mesturino e di Germana Erba.
«È che un po’ di anni fa ero entrata in crisi, non mi piaceva quel che vedevo e che mi veniva proposto e la produzione è stata una svolta impegnativa ma anche molto stimolante e ora mi sta dando delle belle soddisfazioni».
Su quale genere si orienta?
«Il teatro privato vive degli incassi al botteghino e il repertorio brillante è più facile da vendere. A me piacerebbe anche spaziare oltre e cerco una via per fare quel che mi piace ma che sia anche vendibile, un equilibrio delicato. “Lapponia” è una buona mediazione perché la scrittura è moderna e i personaggi sono ricchi di sfaccettature. Inoltre è un testo in cui si riflette su un aspetto importante della nostra cultura che è la magia, il Natale, l’aurora boreale. Per noi è magica, per il finlandese un fenomeno della natura».
E a proposito di spaziare oltre, nel suo curriculum c’è anche “Antigone” diretta da Adriana Innocenti.
«Antigone è una figura che mi ha sempre affascinato fin dai tempi dell’Accademia, poi sono stata coinvolta nel teatro brillante, un po’ da scritturata da altre compagnie un po’ con Torino Spettacoli della mia famiglia. Certo che quando faccio Mirandolina sono felice, ma a lungo andare i ruoli brillanti più stereotipati mi danno meno soddisfazione».
Però la commedia l’ha frequentata accanto a grandi maestri, penso a Filippo Crivelli con cui ha fatto Goldoni e Moliere, a Ugo Gregoretti e a Ernesto Calindri. Ci lascia un ricordo?
«Un “Pensaci Giacomino” in cui Calindri era stato adorabile, generoso: io avevo una bella scena durante la quale lui restava immobile, sempre attento a non mettersi a sfavore, a non coprirmi la luce, e quando uscivo arrivava l’applauso. Era molto attento ma pretendeva una disciplina e un rispetto assoluto delle regole. Era autorevole, io vengo da quel teatro lì, dove c’era ancora un senso della gerarchia».
So che insegna anche teatro al liceo coreutico di Torino, fondato da sua madre. Come insegnante cosa è giusto trasmettere oggi?
«Credo sia importante che un attore abbia le basi tecniche date dall’uso della voce, dall’articolazione, dal lavoro sul personaggio perché la propensione naturale non basta. Non mi piace l’idea che uno si sveglia un mattino e dica di voler fare l’attore e trovi qualcuno che glielo permette. Non succede così negli altri mestieri. E insisto sullo studio dei classici perché non si può partire da un pezzo qualsiasi scaricato da internet o da un videogioco».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco