«Erano altri tempi, certe cose non si potevano dire. Così ho spiegato a tutti che avevo un esaurimento nervoso. Sono sparito per più di un anno: nessuna gara, faticavo persino a parlare. Poi sono rinato». Ad avergli imposto di fermarsi non è stato un infortunio, come verrebbe subito da pensare per un grande sportivo come lui. Lo sciatore Paolo De Chiesa, saluzzese, 68 anni, aveva 22 anni. Aveva già ottenuto le prime vittorie importanti, era già conosciuto in tutta Italia. Gli avevano sparato un colpo di pistola in faccia, ferendolo gravemente. Non degli sconosciuti, ma la sua fidanzata dell’epoca, durante una serata con “amici” («Non posso chiamarli così, non voglio più pensare a loro») a Cortina.
C’è anche il racconto di questo episodio intimo, doloroso e a lungo tenuto nascosto nel documentario “La valanga azzurra” di Giovanni Veronesi. Con il giornalista Lorenzo Fabiano, il regista ripercorre la storia dell’epoca d’oro dello sci alpino: Gustav Thöni, Piero Gros, De Chiesa e gli altri sciatori della nazionale degli anni ’70, osannati quasi come una squadra di calcio, vincenti come mai nessuno prima di loro. Presentata alla festa del cinema di Roma, la pellicola sarà trasmessa anche su Rai 3 a dicembre ed è stata proiettata nei principali cinema d’Italia. Include anche diverse interviste ai campioni.
De Chiesa, che effetto le ha fatto vedersi sul grande schermo?
«Sono abituato a vedere la mia immagine in video (da quasi quarant’anni commenta le gare di sci per la Rai, ndr). Veronesi, però, ha saputo andare oltre i risultati. Vedere un racconto così intimo e personale, perfettamente aderente alla realtà della nostra e della mia storia, mi ha emozionato. Non è solo un salto al passato: è come rivivere alcune emozioni».
Quali sono state le più forti?
«L’amicizia, la stima e l’ammirazione con chi ha condiviso con me questo percorso; l’orgoglio per esserne stato parte; è vero, anche un po’ di nostalgia. Poi ce ne sono altre meno felici».
Si riferisce all’episodio dello sparo?
«Non solo. La vita di tutti gli sportivi è dura e faticosa, ma quella non è una novità e, soprattutto, non è niente di molto diverso dalle vite di tante altre persone. Anzi: non possiamo riconoscere che siamo dei privilegiati, da molti punti di vista. Quel colpo di pistola ha portato con sé tante sofferenze. Ho dovuto lasciare tutto per quasi tre anni. All’epoca studiavo ancora medicina».
Rimpiange di non essere riuscito a laurearsi?
«Mi è dispiaciuto. Ma non posso avere rimpianti così. Ho rischiato di morire. Sono fortunato a essere sopravvissuto, fortunatissimo a essere tornato a gareggiare ad alti livelli».
Perché per anni non ha raccontato pubblicamente questo episodio?
«È una cosa mia, volevo tenerla per me. Non avrei potuto raccontarlo a nessun altro a parte Veronesi. Prima di girare il documentario, non l’avevo mai conosciuto. È una persona speciale, mi sono trovato bene da subito, forse perché anche lui è stato un aspirante sciatore. Parlarne con lui mi è venuto naturale».
Chi e cosa l’ha aiutata a riprendersi?
«Ero tornato a vivere a casa mia, a Saluzzo. Non riuscivo a leggere, faticavo a parlare. È stato un percorso lungo».
Oggi si parla tanto anche di salute mentale, ma fino a pochi anni fa la si considerava poco. Come ha fatto a non perdersi?
«Non lo so se non mi sono perso. Era un inferno. Io volevo sciare, amavo sciare e non potevo più farlo. Ho fatto tutto da me. A volte mi vergognavo di stare male. Non era facile».
Ha mai rivisto le persone presenti alla sera dello sparo?
«Ho tagliato ogni rapporto. Con alcune è capitato di incrociarsi di nuovo. Non ho mai ricevuto scuse né spiegazioni. Non c’erano dei conti in sospeso, era una questione da bulletti di provincia. Ma io ho rischiato la vita».
Come è stato, poi, tornare a gareggiare?
«Meraviglioso, quasi come quando, a 18 anni, mi sono unito a quella che sarebbe diventata la Valanga Azzurra. Ero il più piccolo del gruppo. Sapevo di essere un bravo sciatore, ma non mi aspettavo niente».
Se chiude gli occhi e si immagina con gli sci ai piedi, da quale pista scende?
«La mia passione è nata a Crissolo, dove ho iniziato a sciare sul serio. Papà mi ha accompagnato le prime volte, ma la mia non era una famiglia di sciatori. Io non ho mai perso la passione dei primi anni, sciare è sempre stato un piacere».
Oggi alcuni comprensori sembrano dei grandi parchi giochi: pieni di gente, ristoranti, attrazioni. Le piacciono anche questi contesti?
«A me piace molto lo sci alpinismo, in mezzo alla natura. Ma capisco le esigenze del mercato. L’importante è che ci sia sempre rispetto per la montagna».
Ha mai provato lo snowboard?
«Mai. Sarà bello usare anche lui, ma io ho bisogno di due sci ai piedi».
Da telecronista, negli ultimi anni, ha commentato tutte le principali gare di sci internazionali. Che momento è questo per lo sci italiano?
«Noi eravamo la Valanga Azzurra. Adesso c’è la Valanga Rosa: Marta Brignone, Sofia Goggia, Marta Bassino. Spero che anche Elena Curtoni riesca a recuperare in fretta dall’infortunio. Sono atlete meravigliose».
Perché il settore maschile fatica di più?
«C’è stato meno ricambio generazionale. Dominik Paris è stato un campione vero, un fuoriclasse fenomenale. C’è bisogno di una nuova generazione di sciatori che abbia le capacità, il talento, il supporto per arrivare in alto».
Cosa vede nel futuro dello sci?
«Non nevica più come una volta. Dobbiamo imparare a fare i conti con le condizioni di oggi. Come farlo è una questione complessa. In tanti posti, anche in Italia, già oggi sono bravissimi con la neve artificiale. Le tecnologie sono sempre più avanzate».
E il suo futuro?
«Anche nelle prossime settimane, continueranno le presentazioni del documentario. Ne abbiamo già fatte parecchie, mi sto divertendo: è anche un’occasione per stare insieme. Con Veronesi, poi, si è creato un legame speciale: è un amico».
Articolo a cura di Luca Ronco