Esperta di buone maniere e di galateo, Barbara Ronchi della Rocca è anche una profonda conoscitrice della storia piemontese. L’abbiamo intervistata a Torino in occasione di Dolcissimarte 2024, la prima rassegna della pasticceria piemontese.
Si può dire che la storia dei dolci in Piemonte vada di pari passo con quella dei Savoia?
«Esiste un fitto intreccio. A partire dal Gâteau de Savoie, la torta con i savoiardi, si è imposto nel tempo uno stile di vita legato a certe abitudini».
Quando comincia?
«Siamo nel ’500, la prima capitale europea ad avere il cioccolato, dopo Madrid, fu proprio Torino. I Savoia erano un po’ ondivaghi, ma di solito alleati con la Spagna. Emanuele Filiberto, appunto, era alla Corte di Madrid ed è da lì che portò a casa questa nuova bevanda, poi suo figlio Carlo sposa l’Infanta di Spagna, Catalina Micaela, e con lei arrivano non solo le fave di cacao, ma addirittura la servitù formata a preparare la cioccolata, presentata come afrodisiaca. È dichiarato nei documenti della dote: c’era la donna addetta alla cioccolata per “eccitare il regale sposo”. Cioè, il cioccolato era il viagra di quei tempi. In realtà, l’infanta doveva essere davvero bruttina, e comunque questo signore ebbe 10 figli dalla moglie».
Comincia così anche la tradizione, molto piemontese, delle merende?
«Parte nel ’600. Ma era un vero e proprio pasto, tra le 2 del pomeriggio fino alle 10 di sera si bevevano tazze di cioccolata e appositamente per questo viene inventata tutta una serie di biscottini».
Che sono arrivati fino a noi.
«Le piccole paste secche sono molto particolari. Se si guarda ad altre regioni d’Italia, esistono biscotti da colazione, però sono industriali e nati dopo, oppure paste più grandi. La pasta secca, pensata per essere intinta nella cioccolata, è una specialità piemontese legata alla Corte».
Poi nacquero i gianduiotti e anche il gelato ricoperto…
«C’è sempre stata una grande tradizione artigianale. Ma perché? Perché c’era smercio. Dalla Corte l’uso della cioccolata e dei biscotti passa alle famiglie nobili e poi ai borghesi illuminati. Addirittura il popolo comprava le paste venute male, i biscotti rotti, le briciole delle torte che venivano vendute in cartocci, come le caldarroste. All’epoca la cultura del dolce coinvolgeva anche i poveri, evidentemente qualcosa di dolce bisognava averlo sempre».
Se non sbaglio, lei è nata a Bra.
«Sì, come le mie sorelle: mia mamma era di Bra. Torna il legame con i dolci, pensando alla storica pasticceria Converso – che dal 1838 ha la “patente” che un tempo era necessaria – e a Giovanni Arpino, del quale i miei erano molto amici. Suo nonno era un pasticcere, così come il fratello che aveva riportato in auge l’attitudine familiare aprendo una bellissima pasticceria. E infatti Arpino parla di pasticcini e di cibi raffinati legati alla tradizione braidese».
Tornando alle buone maniere, si abbinano particolarmente ai dolci.
«Proprio perché i dolci sono arrivati in Corte. C’era tutta una serie di prescrizioni, visto che le cose alla Corte bisognava farle bene. Sui manuali del ’7-’800 per le signorine che venivano ammesse a fare le damigelle, erano ad esempio indicati otto modi diversi per fare le uova alla coque. E forse la gente non sa che il Galateo proibisce nettamente di fare la zuppetta nel caffè, nel cappuccino e nel tè. L’unico posto dove si può, anzi si deve fare la zuppetta, è nella cioccolata».
Esistevano anche le tazze da cioccolata, giusto?
«Avevano il manico a sinistra. Come fare a capirlo? Perché le decorazioni andavano verso l’esterno, indicando che il manico era a sinistra: con la mano destra infatti si intingeva il biscotto».
Anche la colazione con il croissant ha un’origine piemontese.
«Non dimentichiamo che i Savoia per secoli hanno sposato spagnole e austriache bruttine: erano costretti, perché c’era il problema della religione e le principesse all’epoca erano quasi tutte protestanti. Quindi il croissant viene importato da una delle tante principesse austriache. Nasce dopo l’assedio di Vienna, era fatto a mezzaluna per irridere i saraceni sconfitti. La prova del nove è che da noi si chiamava inizialmente proprio kipferl e non croissant. Invece in Francia arriva sempre attraverso la Lorena, che era regione austriaca prima di diventare francese, però gli cambiano il nome. A Torino il kipferl è durato fino a tutto l’ottocento».
Dalle grandi casate alle grandi industrie dolciarie…
«Ma ci sono dolci che non possono essere fatti in maniera industriale, per esempio le torte viste a Dolcissima. Vale anche per certi biscotti: i bicciolani di Vercelli non sono stati mai realizzati industrialmente, perché non conviene».
Invece i krumiri di Casale si sono adattati?
«Sì, ma non tutti sanno che il krumiro a sua volta nasce come torta di pasta frolla, bagnata nel liquore poi tagliata a fette, il liquore scompare ed ecco i biscotti secchi».
Bra ha tradizione di biscotti?
«Ce l’ha nelle caramelle alle erbe, confetteria balsamica da masticare dopo i pasti: altra tradizione che passa dalla Corte alla borghesia. Quando i grandi architetti come Guarini portano a Bra il barocco, sintomo di ricche committenze, la città diventa capitale delle concerie».
Fino all’enogastronomia di oggi.
«Molto importante in questo senso la comunità ebraica: la salsiccia di Bra era fatta rigorosamente di vitello, per gli ebrei. Adesso che non è più kosher, ha il grasso di maiale. Anche l’uvetta arriva dall’est Europa portata dagli ebrei: così si sono create isole culturali. Alessandria è stata milanese fino al 1500, poi spagnola fino al 1713. E il piccolo Regno dei Savoia aveva tutto: mare, laghi e montagne».
E prodotti eccellenti come le nocciole.
«Vengono riscoperte nell’Ottocento, abbinate al cioccolato. A proposito, il gianduiotto nasce come “sofisticazione alimentare”: il cacao era caro e ci mettevano di tutto. Negli archivi di Torino ci sono dichiarazioni delle guardie civiche che mandavano in galera gente che aggiungeva alla cioccolata la farina di carrube, di castagne e in un caso polvere di mattone… Il connubio cioccolato e nocciola nasce per sopperire alla carenza di cacao. Una “felix culpa”, in quanto è diventato un prodotto meraviglioso. Però le nocciole, in quel periodo, erano un prodotto di basso livello, usato per fare l’olio».
Qual è il futuro?
«La riscoperta dell’artigianalità. Nulla contro la grande industria – sono un’appassionata dei Mon Cheri Ferrero – ma anche qui siamo in una post-modernità. Dopo l’industria vogliamo la cosa particolare, che non si trova sotto casa. Il gioiello, il languorino di guardia che non dura tanto, bisogna mangiarlo subito. E che come tutte le belle cose dura poco».
CHI È
Nata a Bra, vive a Torino ed è esperta di bon ton. Tra le altre cose, è membro Onorario dell’Associazione Italiana Sommeliers, dell’Accademia delle Tradizioni Gastronomiche del Piemonte, dei Disciples d’Auguste Escoffier, della Confraternita del Gnocco fritto di Modena
COSA HA FATTO
Ha condotto in Rai il programma “Sos scuola” dove forniva consigli per aiutare i ragazzi a
studiare, in collaborazione con Luciano Rispoli. Ha scritto diversi libri sul tema del galateo
COSA FA
Lunedì 18 alle 17.30 sarà ospite in Fondazione Ferrero per l’incontro organizzato dall’Associazione Culturale Giulio Parusso dal titolo “Cerimoniale e Galateo a confronto” presentato da Giuseppe Gobino. Dialogherà con Anna Fosson, modera la cerimonialista Luisa Bianchi