Il tartufo, così elegante e prezioso -con tutte le sue sottotrame fatte di cani, notti insonni, riti e misteri- declinato nei ritmi e nelle sonorità del rock’n’roll?
In tutta sincerità: non ci aveva pensato nessuno. Almeno, sino a poco, pochissimo tempo fa.
In quell’ideale saga in cui il fungo ipogeo trova il proprio eroe nel tartufo bianco d’Alba (nella sua veste migliore: quella del cru “Rocche del Roero”) mancava una vera e propria colonna sonora capace di far battere il piedino a tempo, incalzante, dinamico, elettrico: in un mondo tutto sommato “analogico” come quello dei trifolau e dei loro “tabui”, i fidati quattrozampe a costante loro seguito.
Pareva, quello del pianeta-tartufo, un mondo destinato al silenzio, o semmai al folk.
Qualcuno ci aveva provato, per la verità, ad accostare questo microcosmo alle sette note: come nel caso del “Festival della canzone al tartufo”, nato a suo tempo da un’idea di Luciano Bertello, e tenuto per qualche anno a Montà, proprio dove sta sorgendo un museo tematico che -tempo al tempo- prima o poi prenderà la forma definitiva.
Fu un’esperienza: in cui si alternarono voci, gruppi e brani, molti davvero piacevoli, talvolta adattati per l’occasione, in certi casi destinati a diventare temporaneamente memorabili.
Capitò, in un’edizione di quella kermesse, che si presentò sul palco un ensemble di giovanotti: all’epoca si facevano chiamare “Fool and Drunk”, nome anglofono il cui suono richiama ad un termine piemontese nemmeno tanto differente a livello di significato. “Fulandran”, appunto: che sta per “avventato”, “scellerato”, e chi più ha farina, faccia più pane di parole, senza una vera e propria accezione negativa.
La band, che in quel periodo aveva assunto una certa popolarità in zona adattando i brani storici del rock alle sonorità acustiche, propose un “pezzo” che mise d’accordo giuria e platea, vincendo a mani basse quella che fu peraltro l’ultima edizione del Festival montatese. E che poi fece un po’ quella parziale fine che fa una buona partita di Roero Docg: rimase lì, a maturare, attendendo che capitasse qualcosa. La musica, come il vino, è del resto un elemento vivo: e capita, alle volte, che abbia bisogno di prendersi i propri tempi per potersi esaltare.
La canzone si chiamava “One Two Trifula”: e, ora che quel gruppo ha cambiato nome (ora AlterEgo), formazione e parte dell’attitudine, sta tornando, ri-arrangiata, perfezionata, sotto il segno del rock “vero”, puro, combinando l’estetica e la forma di questo genere con… il tartufo, dicevamo.
Se ogni brano avesse un odore, questo diffonderebbe senz’altro l’aroma di questo prodotto d’eccellenza della nostra terra: ma anche, invariabilmente, le fragranze della terra e delle foglie calpestate nei boschi, della benzina di “pandini” -rigorosamente, 4×4- e forse anche di qualche deiezione canina. E, sopra ogni cosa, avrebbe il profumo del Piemonte: e sì che -non ne avevamo parlato, sino a questo momento- “One Two Trifula” è cantato interamente in dialetto.
Terra alla terra, tartufo al rock’n’roll.
La canzone non è solo una canzone: è un videoclip, diffuso in questi giorni dal canale YouTube degli AlterEgo stessi, con la regia di Eugenio Scarsi, la partecipazione di un performer d’eccezione come Miguel Ferrero, e di diversi amici tra cui spiccano parecchi trifolau “veri”, con menzione speciale per Sergio Cauda, al secolo “Sergio d’la Val”, storico cercatore di tartufi quanto a sua volta musicista, con lunga militanza nei leggendari “Canterin der Brich” (sì, quelli di “Cingòl Bel”, per chi ne ha memoria).
I temi? Moltissimi, su più livelli: tra le usanze della ricerca nel crepuscolo alle inevitabili “sparate” sul peso e le qualità del tartufi trovati (o presunti tali), passando per la menzioni di diversi paesi del Roero, accennando abitudini e dinamiche, ansie, successi e delusioni. Il trifolau come manifesto dell’uomo comune, che s’arrabatta, talvolta perde, talvolta vince: mai uguale a sé stesso, nelle scene girate tra le colline della Sinistra Tanaro, un set sulla strada di Mombirone Vecchio a Canale, ed un altro alla popolare osteria “La Rosa Bianca” di Santo Stefano Roero.
Di certo, “One Two Trifula” è un brano che ha una storia: e ne abbiamo parlato con due componenti e autori della “vecchia” band, ossia Sergio “Rocker” Gioda e Oscar Patritto, canalesissimi, che hanno incrociato i loro solidi cammini di chitarristi con quelli di Dario “Dixio” Gillio (basso) e Davide “Dave” Deltetto (batteria), per formare gli AlterEgo e dare nuova veste a “One Two Trifula”.
Sergio, tutti qui conoscono la tua attitudine musicale: ma come nasce l’idea di accostarla al piemontese?
«Diciamo che è il nostro “scopo del momento”: combinare il rock con quello che non è un dialetto, ma una vera e propria lingua. Ma senza passare per forza per la via dell’umorismo, del genere demenziale, o del concerto-cabaret, come spesso può succedere in questi casi. Ci siamo detti: “se altri lo fanno, in altre regioni italiane”, perché non possiamo provarci noi?”»
Sembra proprio una vera ricerca, come quella della trifula, con le sue regole non scritte: Oscar, dove può portare il sentiero in cui siete entrati?
«Quando componi, i casi sono due: o sei un fuoriclasse, ma per fuoriclasse intendo musicisti come Paganini, oppure hai le spalle coperte da qualcuno che ti può portare in alto in classifica. Noi non abbiamo la presunzione di voler per forza inventare qualcosa, e nemmeno di fare musica sperimentale: il rock è questo, quattro accordi e due scale, suona semplice. Il piemontese un po’ meno: è una contaminazione, ne diventa un’altra, e diventa chiaro. Se avessimo deciso di cantare in inglese, il risultato sarebbe stato pari a zero: noi viviamo quel tipo di musica “anglofona” passivamente. Qui possiamo dire la nostra»
Sia in piemontese, che in italiano, ovviamente: proprio perché gli AlterEgo nascono per creare e portare in giro brani originali.
«Vero: in questo momento abbiamo un intero concerto pronto, le canzoni in piemontese sono due, per ora, ma vorremmo crescere. Personalmente, cantare nella “mia” lingua mi fa trovare il mio posto del mondo», dice Gioda, che è la voce principale del complesso. «Cercando però di discostarci da quell’immagine “indie” di cui soffrono molte band in Italia, in questo momento. E’ un fenomeno interessante»
E chissà che, in questa “cerca” tra versi pedemontani e ruvide sonorità, dagli amplificatori Marshall non sia davvero uscito il vero inno al prodotto-simbolo del Roero e dell’Albese.