Basta una cosa sbagliata che tutto quello che hai fatto di positivo va a farsi benedire. Suona più o meno così il lamento di Vanessa, che da madre esemplare è diventata nel giro di niente una poco di buono. Additata da una comunità bacchettona che aveva trovato il capro espiatorio su cui caricare secoli di pregiudizi. Vanessa è una delle donne rinchiuse nella sezione femminile della Casa Circondariale di Messina, alle quali un attore ipersensibile ha voluto dar voce. Iper, come chi sa farsi tramite dei castighi e dei sogni di chi voce non ha, mettendo sé stesso da parte, per meglio approssimarsi all’anima di coloro che se la sono scordata. Lui è Tindaro Granata, artista poliedrico e fuori dal coro, che è riuscito a far brillare quelle anime stanche con le canzoni di Mina cantate in playback. Le canzoni del suo ultimo concerto alla Bussola, il 23 agosto 1978, guarda caso, pochi giorni prima che Tindaro nascesse, a Tindari, il 5 settembre. Il risultato di questo percorso è “Vorrei una voce”, un monologo oltre le sbarre nel quale anche lui ha ritrovato la sua libertà.
È vero che questo incarico arriva dopo un periodo di crisi professionale?
«Sì, stavo vivendo un momento di apatia, sa quando le cose a cui davi valore, improvvisamente cessano di averne? Mi chiedevo perché affaticarmi tanto con un lavoro che è fatto anche di una prostituzione psicologica insopportabile come andare a cena con persone con cui non prenderesti nemmeno un caffè. Questa proposta è arrivata dopo la pandemia e l’ho subito accolta con favore anche perché non si trattava di fare il mio mestiere ma l’educatore».
E non sarà stato facile.
«Parliamo di detenute di alta sicurezza, una comunità forte e chiusa con una gerarchia per noi incomprensibile, anche mentale. Sono donne che vivono 24 ore su 24 soltanto tra loro stabilendo un legame così forte che impedisce agli altri di entrare. Consideri che gli unici contatti con il mondo maschile li hanno con i magistrati».
E li hanno avuti con lei. Che nello spettacolo dice che l’unica chiave di accesso per entrare nel loro mondo era la sua femminilità.
«Infatti ho scelto di presentarmi molto truccato sia perché fosse loro chiaro che non sono un uomo nel senso convenzionale sia perché non si vedesse che avevo paura».
A parte il non convenzionale, di cosa aveva paura?
«È che quando qualcosa di bello arriva è spesso accompagnato da una strana malinconia, come se tutto potesse finire all’improvviso. Subentra la paura di perdere il sogno».
Invece il sogno lo sta raccontando, il suo e anche il loro. Di lei sorprende la mancanza di filtri, la genuinità.
«Io ho sempre creduto nell’essere umano e anche se non ho un carattere facile, mi piace davvero ascoltare gli altri e nel momento in cui mi relaziono, sono empatico. Loro hanno percepito la mia sincerità. Inoltre la mia disposizione a confidarmi e a parlare di me ha innescato più facilmente i rispettivi racconti. E se all’inizio procedevo in punta di spilli poi è stato tutto molto divertente e si è creata una bella sintonia e una fiducia reciproca».
Ha mai provato la sensazione che una mossa sbagliata potesse compromettere un intero percorso, un po’ come è successo a Vanessa?
«Tante volte nella vita e lì quando erano loro a non avere voglia di fare teatro. Mi dicevo “s’è perso tutto” poi però si ricominciava e mi accorgevo che non era vero. Nella vita ho imparato a guardare le cose con ottimismo, non perché sia ottimista di natura ma perché mi dico che alcune cose non dipendono da noi e non possiamo gestire tutto. Se attraverso una strada so che devo guardare a destra e a sinistra ma poi se mi cade un cornicione in testa… Questa filosofia di vita mi salva».
Come ha scelto i temi da mettere in campo nel monologo, in base ai loro racconti?
«Ho scelto temi che toccavano me, ma anche i miei amici e soprattutto le mie amiche, come l’accettazione del corpo che cambia, che, psicologicamente, può generare turbamento, depressione. Il tema del tradimento, poi, ci riguarda tutti. Non necessariamente tradimento di amore ma è probabile che tutti abbiamo avuto a che fare con la delusione da parte di una persona cara. E ancora l’amore non riconosciuto, che diventa fonte di sfiducia e disistima».
Ho molto apprezzato la sua difesa delle carcerate dall’accusa di aggressività.
«Guardiamo gli animali. Provate a togliere il cucciolo a una femmina. E non soltanto tra i mammiferi ma tra i rettili, i coccodrilli».
A questo punto non posso non chiederle di “Geppetto e Geppetto”, uno spettacolo a più voci che ha scritto, diretto e interpretato, che tratta il tema della genitorialità di coppie arcobaleno.
«Uno spettacolo nato prima che la questione diventasse oggetto di dibattito pubblico in modo esplosivo. Volevo capire cos’era l’istinto materno e paterno e se e come si possa essere genitori per scelta».
E cosa ha capito?
«Ho capito che l’unione e i rapporti di elezione possono essere più forti del sangue».
Invece alla sua famiglia di sangue ha dedicato “Antropolaroid”, un monologo cult, che è ormai repertorio.
«Tre generazioni, settant’anni di vita raccontati a teatro, attraverso il cunto rivisitato in modo semplice, come mi aveva insegnato mio nonno che faceva le voci, i personaggi e io ci vedevo il gioco, non il mestiere. Ho voluto riprodurre quello spirito, l’anima dei vecchi e della mia terra».
Dal cunto rivisitato alla rivisitazione dei classici: penso alla Caterina de “La bisbetica domata”. Qual è in generale il suo rapporto coi classici?
«Penso che se un autore sopravvive al suo tempo, un motivo c’è. Il loro dire diventa universale e quando ti confronti con autori così sei nella condizione di ascoltare l’essere umano. Lavorare su Caterina è stata un’epifania. Mi ha permesso di ripercorrere la tradizione della commedia shakespeariana dove gli attori erano tutti uomini ed è stato bello sperimentare il rapporto tra attore e il femminile. La cosa che mi premeva di più era evitare che le donne si sentissero prese in giro perché in questa figura c’è il dramma di tutto quello che il mondo femminile ha dovuto passare per non scendere a compromessi».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco