«I dati emersi dal Rapporto Ismea 2024 sull’agroalimentare fotografano la grave situazione del comparto primario, che paga a caro prezzo non solo gli effetti dei cambiamenti climatici, ma l’aumento generalizzato dei costi, nonché dei tassi di interesse, oltre alle evidenti speculazioni del mercato. E’ sconcertante che per ogni cento euro spesi dal consumatore per i prodotti alimentari, soltanto 1,5 euro rimanga come utile nelle tasche degli agricoltori. E’ chiaro che la catena della distribuzione del valore non funziona, bisogna che venga posto al più presto rimedio a questa situazione scandalosa, garantendo il reddito delle imprese agricole, dando valore a chi produce, altrimenti le aziende agricole continueranno a chiudere e il Paese perderà il suo patrimonio più importante per l’ambiente e l’economia agroalimentare locale e nazionale».
Cosi il direttore provinciale di Cia Agricoltori di Cuneo, Igor Varrone, commenta il Rapporto annuale dell’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare presentato ieri a Roma.
«Le aziende agricole – continua Varrone – devono essere messe nelle condizioni di poter sopravvivere non solo alle emergenze climatiche, ma alle crisi del mercato e del sistema. Gli strumenti messi in campo dall’Unione europea per la rivoluzione verde si sono rivelati inutili, se non dannosi per l’agricoltura, occorre invertire la rotta e investire le risorse nella giusta direzione, restituendo centralità al settore primario».
Nel dettaglio del Rapporto Ismea, si legge che “nel caso dei prodotti trasformati, su 100 euro di spesa del consumatore per acquistare prodotti alimentari, il valore aggiunto per la fase agricola scende a 4,4 euro e il margine operativo netto a 1,5 euro; il valore aggiunto delle imprese della trasformazione alimentare è di 9,7 euro, ma una volta detratti salari e ammortamenti, che mediamente pesano di più che nella fase agricola, il margine netto è altrettanti basso, attestandosi a 2,2 euro”.
Si tratta in entrambi i casi di un margine molto limitato, specie se lo si confronta con la remunerazione netta per le imprese delle fasi di commercio, distribuzione e trasporto, per le quali di un valore aggiunto di 30,1 euro, una volta detratti i costi per salari e ammortamenti, restano ben 13,1 euro.
Molto significativa è anche l’osservazione sui primi dieci prodotti importati dall’Italia che, in ordine, sono caffè, olio extravergine d’oliva, mais, bovini vivi, prosciutti e spalle di suini, frumento tenero e duro, fave di soia, olio di palma e panelli di estrazione dell’olio di soia.
«Il grado di autosufficienza dell’Italia per questi prodotti – rileva Ismea – varia dallo 0% nel caso del caffè e dell’olio di palma a oltre il 60% nel caso dei prosciutti, ma sono mais e soia, ingredienti di base dell’alimentazione zootecnica, i prodotti che presentano le maggiori criticità in termini di approvvigionamento. Per entrambi le importazioni negli ultimi venti anni sono considerevolmente aumentate, comportando una drastica riduzione del tasso di approvvigionamento (al 46% per il mais e al 32% per la soia nel 2023). Quanto ai Paesi d’origine, per la soia si evidenzia una forte concentrazione delle forniture dal Brasile (50%), mentre nel caso del mais, pur in presenza di un livello di concentrazione minore, prevalgono gli arrivi dall’Ucraina, un Paese chiaramente a rischio elevato».
Sempre il Rapporto Ismea sottolinea come il tasso di approvvigionamento italiano sia basso anche per i frumenti, con l’industria pastaria che dipende per il 44% dalle forniture provenienti da Canada, Russia, Grecia e Turchia e quella dei prodotti da forno che per il 64% del suo fabbisogno ricorre al prodotto di origine ungherese, francese, austriaco, ucraino e romeno.
«Anche per la carne bovina – scrive Ismea – il tasso di approvvigionamento è sceso a livelli molto bassi nel 2023 (40%), con la Francia che concentra l’85% del valore dell’import di bovini da ristallo. La prevalenza di un solo fornitore, trattandosi della Francia, è rassicurante sul fronte geopolitico, ma rende comunque vulnerabile la filiera nazionale ad altri fattori, come testimoniano le recenti difficoltà dovute alle restrizioni sanitarie associate alla diffusione negli allevamenti francesi di epizoozie e alla più recente emergenza Blue tongue».