Richie per sempre

Ron Howard, settant’anni, ha inaugurato il Torino Film Festival con “Eden”, la sua ultima pellicola: regista di successo, nell’immaginario resterà sempre il giovanotto lentigginoso della sit-com “Happy Days”

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Il suo ultimo film, “Eden”, ha inaugurato il Torino Film Festival: narra, ispirandosi alla storia vera di due coniugi tedeschi nel 1929, la fuga impossibile in un paradiso dei Tropici, metafora della rottura con la società e del desiderio di costruire altrove una società migliore. Ron Howard divide la critica, c’è chi rileva la profondità d’un messaggio che la telecamera esalta e chi coglie invece l’occasione perduta di un survival movie non all’altezza delle ambizioni, di certo si confermano le qualità d’un regista affermato, vincitore di due premi Oscar con “A Beatiful Mind”, d’un Golden Globe, di due Emmy Awards e d’un Grammy Award. Tra i suoi film, “Splash – Una Sirena a Manhattan”, “Cocoon – L’energia dell’universo”, “Frost/Nixon – Il duello”, “Apollo 13”, “Cinderella Man” e la trilogia del “Codice da Vinci”, eppure, agli occhi di noi vecchi ragazzi o dei ragazzi d’oggi che setacciano YouTube alla ricerca di antichi miti del grande e piccolo schermo, il settantenne regista e produttore americano rimane attore inchiodato nel tempo, con buona pace pure delle parti rivestite in “American Graffiti” o “Il Pistolero”: per noi sarà sempre Richie Cunningham, il giovanotto lentigginoso dai capelli rossi protagonista, tra gli anni Settanta e Ottanta, della fortunatissima sit-com “Happy Days”.
Doveva, in verità, ricoprire il ruolo principale, dipanandosi la storia tra casa sua e il locale Arnold’s, punto di riferimento della compagnia che frequentava. Tra gli amici, Arthur Fonzarelli, l’intramontabile Fonzie, spaccone e donnaiolo, alter ego dell’educato e genuino, talvolta goffo, Richie che ha finito per sovvertire le gerarchie e diventare primattore. Howard non ne soffrì, superò gli umori popolari e le malizie della stampa che aizzava puntando alla polemica, legò anzi così tanto con Henry Winkler, il volto di Fonzie, pollice alzato e giubbotto nero di pelle, da costruire un’amicizia andata oltre il set e testimoniata dalla scelta di farne il padrino dei propri figli. Ron si staccò dal personaggio dopo sette stagioni, ma rimase così legato da tornare a interpretarlo per qualche puntata: lasciò solo per seguire la sua vocazione di regista e gli sceneggiatori, per giustificarne l’addio, inventarono la scelta della carriera militare. L’immaginario, però, nessuno può riscriverlo: l’America idealizzata degli anni Cinquanta, in cui la serie è ambientata, il disincanto di quel gruppo di bravi ragazzi sempre pronti a infilarsi in piccoli guai, i sorrisi di papà Howard o del barista Alfred, l’addio all’adolescenza tra confronti con se stessi e con l’altro sesso, sono state specchio di generazioni di tutto il mondo e lasciano intatte, cinquant’anni dopo, quelle maschere.
Gli attori sono andati avanti, ognuno per la sua strada, ma restano uniti non solo da rapporti solidi – il primo film di successo, “Turno di notte”, di Ron fu prodotto da Winkler-Fonzie -, ma soprattutto da quella serie che li tramanda. E così, al Torino Film Festival, mentre ammirando gli splendidi 66 anni di Sharon Stone, pur sfogliando mentalmente un ricchissimo book d’attrice, dal ruolo di femme fatale di “Basic Instinct” all’interpretazione drammatica di “Casinò”, nessuno ha pensato alla ragazzina apparsa in “Stardust Memories” di Woody Allen, in Howard tutti hanno rivisto Richie, stempiato e con qualche ruga, ma immobile negli anni. E pensiamo che il ricordo sia così intenso da aver perfino influenzato qualche critica, come quella che attribuisce momenti discutibili del film alla regia di una brava persona, appunto Richie, come tale incapace di maneggiare cattivi sentimenti o girare con disinvoltura scene di sangue.