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«Siamo arrivati vicini a conoscere la verità su mafia e appalti»

Il colonnello e il generale dei Carabinieri contattarono Ciancimino, arrestarono Riina e poi finirono a processo: «Resta l’amarezza per quella che poteva essere una svolta per conoscere certi meccanismi. L’ala militare della mafia è stata sconfitta, ma restano diverse zone grigie tra affari e criminalità»

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Mario Mori è sta­to generale dei Carabinie­ri e direttore del Si­sde, Giuseppe De Donno c­o­lonnello e uomo di spicco del Ros. Li abbiamo incontrati ad Alba per la presentazione del loro libro che smonta le accuse sulla trattativa Stato-mafia.

Qual è il motivo che vi ha spinto a scriverlo?
Mori: «Volevamo dimostrare la correttezza del nostro operato, documentando tutto con atti incontrovertibili. Tanto che a di­stanza di un anno nessuno ci ha contestato quello che è scritto nel libro».
De Donno: «È un po’ il seguito del libro dell’anno scorso su mafia e appalti ed è incentrato sulla vicenda del nostro rapporto con Vito Ciancimino che poi ha dato luogo anche al nostro processo. Un mo­do per concludere questo racconto e illustrare ciò che abbiamo fatto. Mettendo anche in evidenza le cose che forse si potevano fare e non sono state fatte».

Cosa è successo in quegli anni?
DD: «Se lei prova a contestualizzare il ’92, era un momento disastroso, dopo la strage di Capaci l’Italia aveva subito uno shock, la Sicilia in particolar modo, avevamo perso il personaggio più importante della lotta alla ma­fia. Una strage che non era assolutamente prevedibile, perlomeno in quel momento. Poi, a maggior ragione dopo 57 giorni, una seconda strage in via D’Amelio, il dottor Borsellino, per cui ci fu veramente un momento di totale disorientamento, di mancanza di direttive. Lo Stato si trovò impreparato e c’era grande sconforto. Ri­cordo quei magistrati che al telegiornale, sulle scale del Tribunale di Palermo dis­se­ro “consegniamo queste au­lee a Cosa nostra”. Si pensava che tut­to fos­se finito. In quel mo­mento il Ros, in particolar mo­do il generale Mori, diede degli ordini precisi e si iniziò un’attività di contrasto, perché tutto bi­so­gnava fare tranne che ar­ren­dersi».

Generale, come descriverebbe quegli anni?
M: «È stato un momento di di­scrimine tra un modo di affrontare la mafia, fino alle morti di Falcone e Borsellino, e un do­po, affrontandola in maniera diversa, più determinata e specialistica. E i risultati progressivamente sono ar­ri­vati. Nel ’92 non pensavamo che in 2-3 anni saremmo riusciti a venirne quasi a capo. Perché in effetti la stroncatura della Cosa nostra militare av­venne dal ’92 al ’97. Una risposta rapida, però frutto della mor­te di due grandi personaggi».

Sì è parlato tanto della trattativa Stato-mafia.
M: «Se l’è inventata qualche mente bacata che ha portato alle conseguenze che sappiamo, perché se è trattativa, il fatto che io chiedessi a Ciancimino di conoscere e po­ter arrestare insieme a lui Totò Riina, offrendogli in cambio che avrei trattato bene i suoi parenti, siamo ben lontani dalla realtà. Fu un caso che è servito a qualcuno per farsi della pubblicità, ma ci sono voluti parecchi anni per smontare il tutto».
DD: «Questo libro è proprio il racconto del nostro rapporto con Ciancimino. È una vicenda molto complessa che si inquadra in quel sistema di cose e in quell’epoca con una visione forse univoca e politicizzata. Abbiamo affrontato il processo, durato in varie fasi più di 15 anni e alla fine la Cassazione ha ribadito che non abbiamo commesso nulla, ci ha assolto. Resta l’amarezza per quella che poteva essere una svolta nel meccanismo dei rapporti tra mafia, politica e im­prenditoria e invece è diventato un processo a nostro carico. La vita va così».

Che cosa è cambiato nel frattempo?
DD: «La lotta a Cosa nostra, per la parte militare, è stata assolutamente vinta. Non c’è più nessuno in libertà, l’arresto di Matteo Messina Denaro ha sanzionato la fine di quel sistema. Esistono ancora tante zone grigie tra affari, malaffare e forse più che Cosa nostra, sono le propaggini della ‘Ndrangheta le più attive. E comunque – come dice spesso il Generale – è un problema di mentalità mafiosa che resiste. Ci vorranno altri strumenti, altro tempo, ma pia­no piano se ne verrà a capo».

E le zone grigie su quanto accadde in quegli anni?
M: «Siamo, mi sembra, alla quinta edizione del processo. E ci sono nuove emergenze un po’ contrastanti con i primi processi, cioè la notifica di procedure nei confronti di due magistrati che facevano parte del pool. Un fatto nuovo che andrà valutato al termine di queste indagini, perché in Italia appena arriva una notizia tutti noi diamo un giudizio, positivo o negativo. Invece bisogna saper aspettare a trarre le conclusioni. Aspettia­mo che a Caltanissetta facciano il loro lavoro».

Abbiamo visto in un recente speciale sulla strage di Capaci, la delusione di un sopravvissuto degli uomini della scorta di Falcone per l’esito delle indagini. Che sentimento c’è all’interno anche dell’Arma dei carabinieri rispetto a quelle vicende?
M: «Quando si è protagonisti di un avvenimento, si ha sempre un metro di giudizio diverso ri­spetto a chi è spettatore a distanza. Il protagonista subisce uno shock, per cui non è sempre l’uomo giusto che può parlare. L’unica certezza in queste vicende è aspettare un giudizio che non è solo quello penale. C’è anche un giudizio storico che va altrettanto valutato e accettato, quindi direi di guardare con distacco a quanto accaduto. Ma soprattutto, per par­lare bisogna conoscere i fatti, altrimenti è inutile».
DD: «Ormai l’ultima indagine, quella che sta adesso conducendo la procura di Cal­ta­nissetta, è comunque è un’indagine che avviene a più di trent’anni di distanza dai fatti, quindi con i limiti che questo impone. Perché tanti protagonisti, purtroppo, per un verso o per un altro non ci sono più, sono morti. Non ci sono più i protagonisti positivi e negativi di quelle storie».

Si arriverà comunque a una verità giudiziaria?
DD: «Onestamente non lo so. Pro­babilmente con il lavoro della commissione parlamentare an­timafia si potrà ottenere almeno una ricostruzione storica o politica di quegli eventi. L’unico vero rimpianto è che forse ci stiamo lentamente avvicinando alla verità, ma un po’ troppo lentamente, perché so­no passati trent’anni».

CHI SONO

Il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno indagarono sulle stragi del 1992 e 1993 contattando il politico palermitano Vito Ciancimino, ritenuto vicino agli ambienti di mafia. Nel 2018 furono condannati nel processo sulla trattativa Stato-mafia, poi assolti per non aver commesso il fatto

COS’HANNO FATTO

Un anno fa hanno raccontato la loro vicenda nel saggio “La verità sul dossier mafia-appalti. Storia, contenuti, opposizioni all’indagine che avrebbe potuto cambiare l’Italia” (Piemme) e ora presentano “L’altra verità” (stesso editore) sulla figura di Ciancimino

COSA FANNO

Venerdì scorso, ospiti di Confindustria Cuneo e della Fondazione Ferrero, sono saliti sul palco dell’auditorium di Strada di Mezzo ad Alba, nell’ambito del convegno “L’impresa e il pericolo di infiltrazioni criminali” per approfondire il tema raccontando la loro vicenda professionale e giudiziaria