Luca Mana dirige dal 2019 il Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto di Torino, nato nel 1999 per dar corpo al desiderio di Pietro Accorsi, uno dei più noti antiquari del Novecento, di promuovere il gusto dell’arredo antico tramite il lascito della sua pregiata collezione. Spettò a Giulio Ometto, suo erede spirituale nella valorizzazione del grande patrimonio oltre che presidente della Fondazione creata nel 1975, aprire il Museo nel restaurato palazzo seicentesco. Quando poi questi per volontà testamentaria indicò in Mana il nuovo direttore, fu subito chiara la grande fiducia e la profonda stima che nutriva per il giovane collaboratore. Storico dell’arte formatosi tra Torino e Bologna, curatore di mostre di arte figurativa, autore di saggi, responsabile della collezione museale Accorsi da una decina d’anni, Mana aveva già all’attivo esperienze maturate presso la Reggia di Venaria e il Ministero dei Beni culturali.
Direttore, una bella soddisfazione quella nomina.
«Una grande responsabilità» commenta pacato con quel tocco di cuneesità che si riassume nella voglia di fare e di non sentirsi mai arrivati. Mana difatti è molto fiero delle sue origini tra Fossano e Cavallermaggiore ed è nella provincia di Cuneo che va a rigenerarsi alla ricerca di quel coraggio e di quella lungimiranza che sembra oggi mancare a Torino.
Ma come vede lei le prospettive di questa città?
«La speranza di Torino di riemergere dall’immobilismo è di essere “conquistata” dalla voglia di fare e dalla lungimiranza che in questi ultimi anni hanno caratterizzato tutto il territorio della provincia di Cuneo. Lavorare bene deriva da un modo di pensare, avere un progetto e fare il possibile per concretizzarlo, dall’idea al collaudo finale».
La provincia antagonista dunque del sistema Torino di oggi.
«Più che altro è importante distinguere tra i passatisti che vivono per un passato che non c’è più e i tradizionalisti che tengono invece vivo il fuoco dei valori. L’associazionismo cattolico di cui è imbibito il territorio cuneese, erede della tradizione delle confraternite delle compagnie laicali, è ancor oggi alla base di quel saper tessere relazioni e fare sinergia, di quella voglia di condividere i propri obiettivi, non volti a governare, ma ad amministrare il territorio».
Ci racconta in breve lo spirito del suo Museo, 27 sale per immergersi in atmosfere “antiche”?
«Come museo privato è un po’ un’eccezione per una città a forte vocazione pubblica come Torino. Si tratta di un museo creato da uomini che hanno percorso tutto il Novecento, dedicato al collezionismo e al gusto dell’arredo per il Settecento di una certa classe dirigente ancorata alla passione per intarsi e dorature, che ricercava certezze nell’arte del passato. Il famoso architetto Gio Ponti scriveva nel 1928 che Torino era una città dalla doppia anima: pur interessandosi a Gualino, non a caso un biellese innovatore, era gozzaniana in quel modo di riconoscersi nel passato. Accorsi stesso può essere definito gozzaniano».
L’antitesi artistica Gualino/ Gozzano è un tema caro a Mana, affrontato proprio in un suo testo.
«Questa però non è una casa museo, gli ambienti sono stati ricreati per illustrare un gusto tipico di un certo ’900, mentre poi con le esposizioni raccontiamo in parallelo un ’900 diverso, un’alternativa rispetto a quelli che erano gli interessi di Accorsi ed è questa la nostra formula vincente: il visitatore percorre le ricche sale delle collezioni permanenti immerso in mostre che di volta in volta esaltano il fascino di un secolo artisticamente meraviglioso ma molto difficile da interpretare. In questo momento il Novecento piace molto, ma la scelta non è sempre imperniata su questo periodo, che offre comunque tanti spunti a partire dai divisionisti che danno forma e colore alla luce e dai futuristi che danno forma alla velocità».
Come riassumerebbe il suo ruolo?
«Tre sono le parole chiave legate alla mia presenza in questo museo: conservare le opere d’arte, valorizzare la raccolta e comunicare nel senso di far conoscere. Concretamente mi occupo anche delle visite guidate sia sulle mostre che su determinati percorsi tematici. Avendo accesso a documenti non così noti si riesce a raccontare aspetti un po’ meno nazionalpopolari della storia di Accorsi, scomparso nel 1982».
Una figura indubbiamente particolare, da mercante a collezionista di opere in prevalenza settecentesche.
«Arredatore di grandi spazi, Accorsi legò la sua fortuna alla legge di Napoli del 1885 con cui lo Stato autorizzava la demolizione dei quartieri insalubri. I grandi architetti sventrano e ricostruiscono, i grandi imprenditori investono e si affidano al gusto del grande antiquario. “Ognuno ha diritto alla sua piccola Versailles” diceva ai suoi clienti».
Oggi il Museo, dove è confluita anche la collezione Ometto, raccoglie circa 3.000 oggetti, tra argenti, ceramiche, pendole, ma anche mobili, arazzi. Il pezzo simbolo è sen’altro l’ineguagliabile cassettone doppio corpo del celebre ebanista Piffetti, del 1738, con intarsi di avorio e tartaruga.
Ispirato dal motto juvarriano «chi poco vede niente pensa», il nostro Direttore, pur conducendo una vita molto riservata, ama viaggiare come continuo stimolo di confronto. Quale vicepresidente dell’Associazione Amici del Real Castello di Racconigi cerca invece da volontario di portare la propria esperienza museale sul territorio.
Un suo grande sogno?
«Mi piacerebbe trasformare questo luogo in una porta culturale d’ingresso alla città. Un tempo proprio qui in Piazza Vittorio Veneto, fino all’arrivo di Napoleone, c’era la porta di Po progettata da Guarino Guarini nel 1678: memori della presenza di questa porta sarebbe bello fare sinergia con altre realtà museali presenti in zona per diventare tutti insieme una vetrina dell’eccellenza di questo territorio grandioso».
Veniamo ora all’attuale mostra su de Chirico: il valore aggiunto è il carteggio con Breton, autore del Manifeste surréaliste?
«Certamente le lettere contribuiscono a far emergere un de Chirico eroico, non lo scopritore degli anni Dieci, ma personaggio chiave per la storia della società europea. Influenzò moltissimo i surrealisti pur essendo molto diverso. A differenza di Breton, non stimava Freud e non credeva alla psicoanalisi, ma credeva nell’eterno ritorno, nella ricerca delle emozioni vissute, concetto assimilato attraverso la conoscenza delle opere di Nietzsche. Non pittura introspettiva dunque, ma autobiografica, in cui la tela è una scatola di ricordi in cui gettare immagini che ritornano secondo determinati stati d’animo».
Quanti temi appena sfiorati meriterebbero un maggiore approfondimento. Ringrazio per la disponibilità e mi guardo ancora una volta intorno, circondata dal fascino della storia: stiamo chiacchierando in quella che fu l’abside dell’importante complesso monasteriale di Sant’Antonio abate, prestigiosa succursale torinese dei monaci di Ranverso. Resti del campanile sono ancora presenti, così come le colonne della chiesa che tra l’indifferenza dei passanti ornano i portici; mentre scendo a visitare gli infernotti perfettamente conservati, immagino nell’attuale cortile della Fondazione l’antico chiostro. Con la soppressione dell’ordine nel 1773 l’edificio si trasforma in palazzo, il più antico di via Po, ed è qui che visse il celebre Fontanesi, un mito per i giapponesi ai quali insegnò a dipingere i paesaggi all’occidentale. Ed è qui che il padre di Pietro Accorsi faceva il portinaio, ignaro che un giorno quel palazzo, comprato dal figlio, avrebbe un giorno ospitato un museo che porta il suo nome.
De Chirico e i Surrealisti: una mostra per chiarire un rapporto complicato
Nel centenario della pubblicazione del Manifeste du surréalisme da parte dello scrittore francese André Breton, la mostra “Giorgio de Chirico: 1924” allestita dalla Fondazione Accorsi-Ometto focalizza l’attenzione proprio sullo stretto rapporto che unì per molti anni i due artisti, mettendo in luce il ruolo di padre spirituale che de Chirico ebbe nella nascita e nello sviluppo del movimento. Col suo universo fatto di accostamenti inaspettati in ambienti casuali, de Chirico affermava una rivoluzione artistica da compiersi attraverso l’inconscio e la sfera dell’irrazionale, spalancando le sue prospettive a poeti ed artisti quali Aragon, Magritte, Dalì, Max Ernst. L’amicizia e la collaborazione con il gruppo dei Surrealisti si incrinò però presto con una rottura definitiva nel 1926 quando Breton dichiarò che de Chirico era “morto” artisticamente nel 1918. La curatrice Victoria Noel-Johnson mette in luce come questa distanza celi in effetti un conflitto d’interessi. I Surrealisti avevano infatti acquistato gran parte delle opere dechirichiane del primo periodo metafisico (1910-1918) e ne temevano un’implicita svalutazione. L’esposizione, che presenta una cinquantina tra disegni e dipinti del periodo dal 1921 al 1928, svela tuttavia come innovazione e continuità si coniughino in opere di altissimo valore. Ne sono esempio le serie di soggetti come il galoppo delle coppie equestri o i Gladiatori. La mostra presso la sede del museo, a Torino, via Po 55, resterà aperta fino al 2 marzo 2025.
Articolo a cura di Ada Corneri