Home Articoli Rivista Idea «Violenza di genere il pericolo c’è anche nelle case per bene»

«Violenza di genere il pericolo c’è anche nelle case per bene»

Gli “Amori rubati” di Federica Di Martino, cinque monologhi: «Un successo sorprendente. Ora vorrei proporli negli spazi diversi di uno stesso teatro»

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Di fronte a tentativi più o meno striscianti di strumentalizzare la vio­lenza di genere per infierire sui disperati, anche il teatro ha in serbo le sue belle risposte. Una arriva da un progetto ideato da Federica Di Martino, attrice e produttrice particolarmente attenta all’universo femminile. Si intitola “Amori rubati” ed è tratto da cinque racconti ispirati a fatti di cronaca contenuti nel libro di Dacia Maraini, “L’amore rubato”, adattati per la scena dalla stessa autrice. Il risultato è uno spettacolo composito costituito da cinque mo­nologhi di trentacinque minuti ciascuno, per cinque attrici ap­positamente convocate da Fe­derica. Monologhi che possono essere rappresentati in un’unica soluzione, come è avvenuto al debutto, lo scorso anno, al Pa­lazzo delle Esposizioni di Roma, oppure selettivamente, in programmazioni dedicate.

Federica, com’è nata l’idea di mettere in scena questi cinque racconti?
«Tutto è cominciato nel 2013 quando mi sono imbattuta nel li­bro di Dacia Maraini, appena uscito. Io avevo letto molto di lei e questi racconti riguardavano un tema a me molto caro. “Cro­naca di una violenza di gruppo”, in particolare, riguardava un fatto di cronaca che mi aveva molto colpita, ­lo stupro di gruppo di Montalto di Ca­stro, da parte di quattro adolescenti ai danni di una loro coetanea, mai condannati».

Ragazzi appartenenti a famiglie cosiddette per bene, invitati a una festa di compleanno.
«Infatti la violenza di genere non dipende soltanto da am­bienti sociali degenerati ma è un pericolo presente anche ne­lle case delle persone per bene, acculturate, apparentemente normali».

Un dato di fatto inequivocabile. Mi domando spesso se il tanto parlarne non favorisca l’emulazione. Se i “mostri” sono tanti, allora ogni mostro si sentirà un po’ meno mostro, parte di una mostruosità distribuita, e quindi anche meno mostruosa, più diluita.
«Il problema è articolato. Me lo sono posta anch’io e penso che in ogni caso sia bene parlarne. Poi tutto dipende dal come se ne parla. Io temo che con l’avvento di internet ci sia stato uno sdoganamento della violenza. Ragazzini che online fanno giochi estremamente vio­lenti dove il punteggio di­pende da quante persone sei riuscito a far fuori. Si perde il confine tra realtà e immaginazione e con troppa facilità si re­periscono informazioni su co­me uccidere. Se vuoi uccidere con il veleno per topi, per esempio, su internet trovi le risposte. Lo dimostrano alcuni recenti fatti di cronaca».

E ogni monologo è legato a un fatto di cronaca, prima rivisitato dalla letteratura poi porto attraverso un’emotività che non è solo racconto ma ha a che fare con la fisicità delle attrici.
«Sì è un’operazione che non è solo ascrivibile al teatro civile ma abbiamo scelto la strada della favola nera, dove ogni interprete fa vivere il proprio personaggio o la propria storia».

La sua chiama dentro più personaggi, tranne quello della giovanissima donna violentata.
«Otto personaggi, compreso il preside della scuola e il prete, la migliore amica della vittima, il padre. La vittima invece non c’è, vive soltanto attraverso le pa­role degli altri. Questo mi ha colpito molto, come se la sua anima si fosse fermata per sempre».

Viola Graziosi, Federica Re­stani, Silvia Siravo, Lorenza Sorino sono le interpreti degli altri quattro monologhi: come le ha scelte e cosa ha chiesto loro?

«Sono colleghe con le quali avevo già collaborato e ho dato loro direttive di massima: ognuna doveva essere anche regista del proprio monologo, usare elementi diversi di attrezzeria e i costumi dovevano essere uguali, a parte il colore, che ognuna ha scelto liberamente».

Il risultato mi sembra sia stato accolto con molto favore, pensate di riproporlo in altre occasioni?

«Il risultato è stato sorprendente e vorrei certamente riprenderlo, non soltanto a novembre in occasione della giornata dedicata. Mi piacerebbe proporlo in spazi diversi di uno stesso teatro, dal foyer ai camerini, og­ni monologo in un suo proprio spazio, in contemporanea, re­plicato più volte, e il pubblico che si sposta liberamente».

Un motivo ricorrente, purtroppo, è il senso di impotenza che provano le persone che vivono accanto.
«È che quando vivi una situazione così ti senti incompreso dal resto del mondo e l’obiettivo di questi uomini è proprio rendere il rapporto esclusivo, allontanando la donna da tutti per farle credere che la sua identità si appaghi completamente nel rapporto a due».

E la letteratura teatrale da che parte sta, secondo lei?

«In quanto alla parità di ruoli non sta molto meglio. Alle donne per secoli il teatro era interdetto e quelle che lo facevano erano considerate delle poco di buono. I ruoli maschili nella letteratura teatrale rappresentano perfettamente la disparità di genere».

Certo che Ibsen di donne ribelli ce ne ha lasciate.

«Ibsen sì, con Hedda Gabler poi ha centrato il problema del femminile. Una donna di ventinove anni, per l’epoca considerata una vecchia, che non trova po­sto in una società ancora più vecchia».

La vedremo fare Hedda?

«Ormai sono io fuori età. Anche se durante il lockdown ci abbiamo provato, prove su zoom e una vera e propria regia video, poi non abbiamo trovato i soldi per una vera messa in scena».

Martedì ha debuttato “Re Lear” con Gabriele Lavia nel quale lei interpreta una delle tre figlie, Goneril, la primogenita e la più cattiva. Cosa ha imparato da un maestro indiscusso del nostro teatro che poi ha pure finito per sposare?
«A cercare di essere sempre a cento. Anche quando pensi di dare il massimo, fa ancora uno sforzo perché puoi sempre fare di più».

È dura?
«Io vengo dalla danza classica e alla disciplina sono abituata. Siamo due Bilancia e siamo en­trambi animati dall’amore per il bello e dalla tendenza alla perfezione. Irrealizzabile, ma bisogna tendervi sempre».

A quale personaggio è più affezionata?
«A Ilse de “I giganti della montagna” di Pirandello, ma auspico che per la poesia possa esserci un finale diverso. Viviamo un’epoca buia ma dobbiamo confidare nella bellezza».

C’è in cantiere un progetto in questo senso?
«Con Marilù Oliva, un adattamento dell’“Odissea” dalla par­te delle donne, con sei attrici. E poi l’“Iliade” delle Dee, che ve­drà una donna alla regia. Spero sia tutto pronto per l’estate».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco