Cinquemila metri di dislivello, 36 chilometri a piedi, sette giorni alla scoperta della Val Grande, gioiello del Piemonte: questo è l’itinerario, reale e ideale, di “A riveder le stelle”, film-documentario di Emanuele Caruso realizzato dalla società di produzione albese “Obiettivo cinema”.
La pellicola arriva dopo il successo dell’opera precedente di Caruso, “La terra buona” (oltre 55.000 biglietti venduti, per un incasso superiore ai 310.000 euro, senza contare la distribuzione attraverso “Hbo”, le televisioni svizzera e cinese, la piattaforma “Amazon prime”), che, pur essendo un’opera di “fiction” è ispirata alla reale vicenda di padre Sergio De Piccoli e alla sua biblioteca di Marmora, la più alta d’Europa.
“A riveder le stelle” mutua dai lavori precedenti del regista albese la fierezza della produzione indipendente: costato circa 60.000 euro, con il sostegno della Film Commission Torino Piemonte, del Parco nazionale della Val Grande e di una campagna di “crowdfunding” di successo, è stato realizzato con due iPhone di ultima generazione, ricaricati attraverso energia fotovoltaica.
Una produzione a impatto ambientale zero ha portato i sei protagonisti del viaggio, ossia i tre membri della “troupe” più gli attori Giuseppe Cederna e Maya Sansa e il dottor Franco Berrino, a vivere un’avventura unica, a contatto con la natura più incontaminata e guidati da una domanda esistenziale: che mondo lasceremo alle generazioni future?
«Penso che chi verrà dopo di noi guarderà al nostro passato per chiederci conto delle nostre azioni. Lasceremo loro un mondo disastrato», ha affermato Emanuele Caruso durante la conferenza stampa di presentazione del film svoltasi presso il cinema “Reposi” di Torino. «Non sono molto ottimista per il futuro, però non accetto di stare fermo a non fare nulla: il messaggio che voglio trasmettere è positivo, un invito all’azione. Perché non bisogna aspettare che il cambiamento venga calato dall’alto, ma è sempre necessario fare il primo passo».
Il film si concentra sul tema ambientale e sui cambiamenti climatico, senza retorica o facili banalizzazioni: seguendo i protagonisti, lo spettatore sarà chiamato a interrogarsi sulle proprie scelte, sui rischi dell’eccessiva antropizzazione, sulla perdita del rapporto fra l’uomo e la natura.
«Non racconto il cambiamento climatico attraverso i dati», continua Caruso; «provo a farlo da un punto di vista umano, esistenziale. I miei film si interrogano sempre sul concetto di scelta: perché facciamo una cosa e non un’altra? Perché reagiamo solo quando siamo messi davanti all’emergenza? Che responsabilità ci attribuiamo?».
Anche le scelte produttive rispecchiano l’attenzione alla tematica ambientale.
Oltre alla già citata dotazione tecnica a impatto zero, tutto il lavoro si è svolto nel modo più vicino possibile ai ritmi della natura, come racconta il regista: «Dei sette giorni di riprese, cinque sono stati di maltempo, ma questo non ci ha scoraggiato. È stato un film molto difficile da girare; forse si tratta dell’esperienza più faticosa della mia vita: camminare, fare riprese, portare dietro gli zaini con i vestiti e le dotazioni tecniche, ripararsi dalla pioggia, e in tutto questo realizzare qualcosa di creativo dal punto di vista artistico… Di notte, io e le due altre persone della “troupe” riposavamo poco: calato il sole, ci mettevamo a scaricare le immagini sui nostri computer e controllavamo il materiale. In quelle condizioni, sono andato in crisi già il primo giorno: il lavoro stava divergendo totalmente dalla traccia che avevo immaginato. Ma il documentario è così: ho lasciato totale libertà a tutti i protagonisti di dire e di fare cosa volevano. Ed è venuto fuori un lavoro davvero importante, con messaggi forti».
L’emergenza sanitaria dovuta al coronavirus sta rendendo difficile l’uscita della pellicola (che si preannunciava un successo, con oltre 7.000 biglietti già venduti).
Si resta in attesa delle disposizioni che permettano un’ampia diffusione.
Caruso sottolinea: «Una delle ipotesi per venire incontro a questa emergenza è uscire
“on-line”, su una piattaforma a cui “Obiettivo cinema” lavora da un anno, ma non è una soluzione definitiva. Penso che sia importante l’incontro in sala: il film è stato realizzato pensando a questa destinazione. Inoltre c’è una dimensione sperimentale, che è quella dei telefoni cellulari utilizzati come videocamere: vale la pena stupirsi per l’effetto che fanno sul grande schermo. Restiamo in attesa di capire la strategia migliore da adottare, ma confido che, nonostante i pochi mezzi a disposizione di noi produttori indipendenti, saremo nelle sale con “A riveder le stelle” il più presto possibile». è un augurio da condividere, anche perché significherebbe essere fuori dall’emergenza.
Con Giuseppe Cederna, Maya Sansa e Franco Berrino grande “feeling”
Il viaggio ha permesso di entrare in simbiosi con la natura
e di incontrare chi abita e preserva quei posti incontaminati
Il film si avvale della presenza di Giuseppe Cederna, noto al grande pubblico per il sodalizio con Gabriele Salvatores (“Marrakech Express”, “Mediterraneo”) e già presente nel lavoro del 2013 di Emanuele Caruso “Meno 100 kg-Ricette per la dieta della nostra pattumiera”, tratto dal libro omonimo di Roberto Cavallo, e di Maya Sansa (interprete, fra le altre cose, de “La meglio gioventù”).
«Gli attori sono stati molto disponibili», sottolinea il regista. «Su Giuseppe Cederna, che è anche alpinista, non avevo dubbi. Maya, che non aveva mai fatto qualcosa del genere, forse non si aspettava questa avventura. Ma si è messa in gioco ed è stata fantastica: ha speso per questo progetto parole davvero appassionanti e di ciò le sono molto grato».
Inoltre un ruolo speciale spetta al terzo protagonista del documentario, il dottor Franco Berrino, che ha partecipato senza riserve al viaggio. Epidemiologo ed esperto di tumori, è un convinto assertore dell’utilità di una sana alimentazione per combattere l’insorgere del cancro: oltre alla sua attività presso l’Istituto nazionale dei tumori di Milano, è noto per le sue pubblicazioni (l’ultima: “La via della leggerezza”, 2019) e per i frequenti interventi sui principali quotidiani nazionali.
«Nonostante i 75 anni», commenta Caruso, «ha camminato più e meglio di me, che pure ho dovuto perdere più di 10 chili per affrontare l’impresa. Ha sfidato la fatica e ha dato un contributo importantissimo al film. È quasi un “guru”, mi ha stupito che abbia accettato la proposta e che si sia speso in questo modo per il progetto».
Fra i sei che hanno preso parte alla spedizione (i tre protagonisti più i tre membri della “troupe”) si è subito creato un clima di condivisione e dialogo che costituisce la versa sostanza del documentario: i 36 chilometri del viaggio sono stati un’occasione per entrare in simbiosi con la natura, per incontrare chi abita e preserva quei posti incontaminati e, soprattutto, per dedicare del tempo a se stessi, nell’incontaminato scenario che, chissà ancora per quanto, offre un momento unico di contatto con l’assoluto.