Ci vuol fegato ad avere cuore

0
175

Gentile lettore, leggendo quel che scrivi mi è venuta in mente un’immagine, una situazione in cui credo che ognuno di noi si sia trovato almeno qualche volta. Pensando a quella sensazione di potenza, alla possibilità di applicare una forma di giustizia primitiva in risposta a palesi ingiustizie, piccole o grandi, recenti o pregresse, ho ricordato quando si è in auto.

Al volante tranquillo, di ritorno da una giornata al lavoro o in viaggio di piacere, capita che qualche scellerato arrivi a tutta velocità e, incurante dei veicoli che lo precedono, azzardi un sorpasso senza senso, quasi sempre almeno in una mezza curva e con visibilità scarsa. Se nell’altro senso di marcia, ancora in lontananza, ma non abbastanza per rendere la manovra una formalità, sopraggiunge una vettura, per un attimo, un attimo solo, il pensiero che ti passa per la mente è: «Non rallento e sono tutti affari suoi, così impara a credersi più furbo degli altri». Penso sia un pensiero umano, forse anche auspicabile poiché significa produrre ancora anticorpi di fronte a soprusi.

Altrettanto umano e ancora più auspicabile, però, è che un nanosecondo dopo averlo pensato, si alzi il piede dell’acceleratore per poggiarlo sul freno. Per un sacco di buone ragioni: intanto per rispetto del Codice della strada e poi per motivazioni anche egoistiche, perché chissà se e come si verrebbe coinvolti in un ipotetico incidente. La ragione più forte, però, a mio avviso, sta nel fatto che nessuno si sente davvero in grado di decidere della sorte altrui: non di quella dell’automobilista sbruffone, ma ancora di meno delle persone che eventualmente viaggiano con lui o di quelle sull’automobile che procede nel senso opposto di marcia. Distrug­gere, danneggiare è segno di rabbiosa limitatezza; nulla dà più il senso di onnipotenza del cambiare in meglio l’esistenza degli altri, a maggior ragione se non se lo meritano sino in fondo, e ancora di più se non si aspettano che sia proprio tu a farlo.